“Nel Tempio di Durga”. Du' Parole. Roma, 5 maggio 2023. Foto: Arianna Speranza |
Si è conclusa in questi giorni la Mostra Fotografica collettiva “Nel
Tempio di Durga – Colori, musica e spiritualità: la festa di Durga nel tempio
hindu di Torpignattara a Roma”, che è durata dieci giorni, al locale Du' Parole
a Centocelle.
In mostra c'erano ventidue fotografie, di dieci fotografi, risultato
del Workshop che ho tenuto ad ottobre dello scorso anno, durante una delle più
grandi e sentite festività religiose induiste che è durata quattro giorni.
Su Durga e questa celebrazione ho già scritto.
Terrei a trarre qualche considerazione invece sui giorni della mostra.
Innanzitutto la grande partecipazione del primo giorno di aperura con
quasi duecento persone.
Anche nei giorni successivi c'è stato molto pubblico, soprattutto mi ha
fatto estremamente piacere la presenza delle donne del tempio Sarbojonin Hindu Puja Mondir, in un
meraviglioso sari rosso, che si sono viste in fotografie stampate per la prima
volta.
E qui inizia la prima considerazione.
Perché è sempre stato un mio grande rammarico quello di non rendere
possibile ai soggetti delle fotografie di potersi “vedere”.
Non è solamente un fattore estetico, di quanto può essere bella
un'immagine o un ritratto e comunque ognuna di loro fa un largo uso di Facebook
e conoscono bene le mie fotografie.
Il discorso è diverso e punta di più sulla fotografia come mezzo e non
come fine.
Del resto mi è sempre piaciuto di più di ciò che la fotografia rende
possibile, del suo significato socio-antropologico, che non del commento
estetico di una fotografia: questo lo lascio fare a chi è più bravo di me.
Per me la fotografia è sempre stato un ponte invisibile, un ragno che
tesse ragnatele tra le persone e le emozioni.
Come forse direbbe Wittgenstein, il significato della fotografia che
più ho a cuore è quello che cade nello spazio vuoto tra la macchina fotografica
e la persona ritratta, la sua immagine.
Già durante la mia presentazione iniziale nell'inaugurazione ho visto
le poche donne induiste che erano venute molto felici. Il giorno successivo
sono tornate più numerose, con i figli e di un rosso fiammeggiante.
Ma soprattutto per tutto il giorno seguente mi hanno ringraziato in
privato per aver spiegato e fatto conoscere agli italiani chi fosse Durga e per
avere messo su una mostra fotografica sull'Induismo bengalese a Roma – e non mi
dovrei sbagliare nel dire che forse è la prima che si fa su questo argomento.
Li fotografo ormai da oltre dieci anni e mi sembrava giunto il momento
di coinvolgere alcuni dei miei amici fotografi nel workshop per una delle feste
più belle da vedere.
La comunità bengalese induista a Roma è una minoranza di oltre un centinaio
di famiglie, ma è cresciuta negli ultimi anni, grazie anche alla presenza dei
tue templi nello stesso quartiere di Torpignattara.
Del resto sono una minoranza nello stesso Bangladesh.
Perciò puntare gli obiettivi su di loro diventa anche un atto magico,
in puro senso antropologico: li rende visibili, li fa “apparire” in senso di
epifania.
Escono dalle porte dei templi per palesarsi davanti gli occhi del
pubblico che rimane estasiato dalla bellezza dei sari, dalla gioia prorompente
dei sorrisi e delle danze, commosso dalle loro lacrime di trasporto religioso,
meravigliato dalla ricchezza dei loro rituali.
Ecco, la loro riconoscenza è stata veramente toccante per me: ciò che
mi ha dato la felicità più grande di questa mostra.
Il secondo punto, invece, riguarda proprio chi è venuto a vederla.
Perché, come mi capita ogni volta che porto qualcuno in queste feste,
nei loro templi, è tornata la stessa meraviglia e curiosità.
Con la consueta considerazione sul fatto che poi alla fine quello non è
luogo inaccessibile.
Anzi.
L'idea che chi entra, da sconosciuto, possa essere un elemento di
disturbo o fastidio, cade nel momento che si rimane davanti alle foto dei loro
volti sorridenti o si parla con uno dei nove fotografi che mi hanno fatto
compagnia in questo viaggio.
Il pregiudizio è nella nostra testa non in quella degli amici del
tempio.
È sufficiente varcare – a piedi nudi – la soglia del tempio che si
viene rapiti dallo spirito religioso, dalla loro gentilezza e dalla musica.
Sono proprio loro i primi a voler essere conosciuti, ascoltati, visti.
Sapere che questa nostra piccola mostra fotografica abbia scalfito i
timori e acceso la miccia della curiosità in qualcuno è per noi un successo,
più del numero di chi è venuto in questi dieci giorni.
E, soprattutto, è stato un successo la felicità di chi poi minoranza
non è, perché le minoranze sono sempre come i telescopi, basta girarli e tutto
cambia, come insegnava Pirandello.
Eravamo noi la minoranza estranea all'interno del loro corpo sociale e
religioso, eppure ci hanno trattati come elementi di una famiglia.
Anche questo può fare la Fotografia.
Grazie ancora a Sandro, Stefano, i due Massimo, Micol, Beatrice,
Arianna, Alessandro e Gian Marco.
E grazie al locale Du' Parole per averci ospitato.
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