Quadraro. Roma, 12 Maggio 2010 |
Quanto tempo è trascorso...
Le fotografie sono come vascelli, o scrigni sulla scrivania.
Non ne vedi il contenuto ma sai che puoi sempre inserire la chiave e aprirli.
Ciò che vi è riposto non scompare mai. Al più si dimentica.
E quante emozioni noi dimentichiamo nella nostra esistenza.
Come gocce di acqua che scivolano sulla pelle quando usciamo dal mare:
noi ricordiamo la nuotata, non quelle gocce.
Così è, a volte, la vita. Ricordiamo gli eventi importanti, ciò che ci
ha ferito o reso felici ma tendiamo a dimenticare quelle micro emozioni che
scaturirono da quegli eventi.
Se potessimo ricordare ogni piccola variazione dei nostri sentimenti,
lungo tutto il corso della vita, accumulando, forse impazziremmo. Esploderemmo.
Dimenticare è anche una forma di sopravvivenza.
Perciò noi accantoniamo con cura quelle gocce nello scrigno della
nostra memoria, per lasciarle andare all'oblio.
Ma le fotografie le conservano.
Tornare a guardare una vecchia foto significa bagnarsi in quel mare
antico.
Questo accade, almeno a me.
Era il maggio del 2010.
Da poco tempo io scattavo fotografie. Qualche anno appena ma avevi già
deciso che sarebbe stato il percorso che mi avrebbe reso felice.
Come ad ogni inizio io non sceglievo, mi lasciavo portare dagli eventi.
Con curiosità; che mi è sempre rimasta.
Curiosità e l'ingenuità di chi scopre un nuovo gioco per dare forma ai
sogni.
Io fotografavo le persone del Bangladesh che incontravo a Roma.
Ci sono delle motivazioni che sono inspiegabili anche a noi stessi.
Come la prima volta che visitai i villaggi di una zona specifica di
Giava in Indonesia. Scrissi poi che, forse, in una vita precedente ero un
bambino di villaggio che correva nelle risaie.
In qualche modo dobbiamo razionalizzare ciò che sembra un mistero
emotivo.
Perché certe melodie piuttosto di altre ci fanno piangere o alcuni
colori ci fanno ribrezzo, mentre altri li guarderemmo per ore...
Ogni cosa ha una ragione, il problema è che spesso noi la ignoriamo.
Io non ho mai capito perché, fin dall'inizio, ho sentito un'attrazione
fortissima per questa gente. Mi sono detto per i colori, l'intensità dello
sguardo, la semplicità traboccante di cromatismo dello salwar kamiz.
La risposta è molto più semplice: non esiste una risposta.
È qualcosa che va troppo nel profondo e noi non arriviamo.
Come quando dall'alto della scogliera vedi le figure tremolanti delle
pietre nel fondo dell'acqua cristallina. Le stai vedendo ma sai che non potrai
mai raggiugerle o toccarle perché la vicinanza è una distorsione ottica – sono
troppo in profondità, non si possono sfiorare.
Io credo che certe cose vadano così.
Ho impiegato tutta una vita per arrivare a comprendere che il filosofo Wittgenstein
non aveva torto: di ciò che non si può parlare si deve tacere.
Ma non per questo non possiamo godere delle emozioni che tale vista o
sensazione ci procura.
Non tutte le cose devono necessariamente essere afferrate in modo
razionale.
A volte è bello anche galleggiare nell'indefinito.
Quel giorno una donna che conoscevo da poco, del Bangladesh,
chiamiamola Dharna, mi invitò a casa sua per fare dei ritratti.
Io andai in questo condominio, al Quadraro, una zona in cui non ero mai
stato. Quartiere molto popolare.
Non era ancora consuetudine per me entrare nelle case delle famiglie
del Bangladesh. Mi aggiravo con curiosità e timidezza.
Fin da allora mi era chiaro che il segreto per raccontare buone storie
era quello di entrare nelle case e nelle vite delle persone.
Tutti sono in grado di fotografare eventi, feste, persone nelle strade;
ma quando si aprono le porte del privato allora il discorso diventa più
profondo.
Ma queste cose uno le capisce meglio con il tempo.
Quello era il tipico appartamento in cui vivevano più famiglie: ciò che
mi stupì allora ma che diventerà la normalità negli anni a venire.
Con la mia amica viveva anche una famiglia, ma il marito era al lavoro
quel giorno. Ecco che compare, difatti, dopo un po' una giovane donna,
incuriosita da ciò che stava accadendo e da chi fossi.
Le persone sono differenti se incontrate fuori o dentro casa; chiuse al
sicuro delle proprie mura domestiche abbassano più facilmente le proprie
protezioni. È più semplice ed immediato avvicinarsi alla loro essenza.
Mentre la mia conoscente era esuberante e felice di essere fotografata
come una celebrità, l'altra donna guardava sorridendo timida sul bordo della
porta della stanza.
Con un fremito impercettibile del corpo come a trattenere qualcosa.
Solo quando pensò di avere atteso il tempo dovuto, mi chiese con
estrema timidezza se potevo fotografarla con suo figlio piccolo.
Certamente...
Lei scomparve per tornare con un bimbo di cui non ricordo l'età, ma non
superava i tre anni.
Il bambino aveva una malformazione al naso.
Lei mi chiese solamente un favore, con gli occhi abbassati, di non
pubblicare le fotografie del figlio. Con la voce tremolante di chi si vergogna
di provare vergogna.
Era la richiesta di una madre. Io la rassicurai.
Facemmo altre fotografie.
Poi lei mi chiese se volevo vedere il tetto dell'appartamento.
Anche la mia amica ne era entusiasta, pensando a quanto sarebbero stati
belli i ritratti con il cielo.
Perciò andammo su per le scale del condominio, fino ad uscire sul
tetto.
Io feci ancora delle fotografie alla mia amica, poi le decise di
cambiare abito, visto che io ero là voleva approfittarne per avere molti
scatti.
Perciò rimanemmo da soli io e la giovane madre con suo figlio.
E là tutto prese una piega diversa, in pochi attimi.
Ormai si sentiva più tranquilla, e stare su quel tetto, lontana da ogni
sguardo, credo la facesse sentire totalmente libera.
Ormai sapeva che il volto di suo figlio non lo avrei mai mostrato.
E anche la sua amica adesso non c'era. Eravamo solamente io, lei, il
suo bimbo e la macchina fotografica.
Ecco che, allora, iniziò quasi a danzare davanti a me.
Ancora lo ricordo bene.
Sembrava come se il cemento di una diga si fosse crepato e, di getto,
tonnellate di acqua l'avessero infranta.
Iniziò a baciare suo figlio, a farlo dondolare. Poi, cosa che vidi fare
per la prima volta nella mia vita, lo afferrò per i piedi facendolo stare
dritto.
Io ne fui scioccato; terrorizzato che potesse cadere, ma sia il bambino
che la madre ridevano senza la minima preoccupazione.
Allora compresi che io dovevo solo fotografare.
Lei stava facendo tutto questo per me – e per sé stessa.
Quando tornai a casa ero veramente felice.
Ancora adesso, che ho tirato fuori queste vecchie fotografie dallo
scrigno della memoria, mi viene da sorridere.
Appare tutto così chiaro.
Il suo cammino dalla timidezza iniziale, la diffidenza, la vergogna per
quel bambino dal naso deforme.
E poi, su quel tetto, come tutto questo fosse spazzato via.
Sembrava veramente che fosse non semplicemente sul tetto di un palazzo,
ma dell'umanità intera.
Finalmente libera di esprimere ed esplodere in tutto il suo amore
materno.
La deformazione che deturpava il naso del bambino aveva valore sulla
terra, tra la gente, nella casa, la rendeva timida e arrendevole.
Ma nella solitudine del cielo e della mia macchina fotografica suo
figlio tornava ad essere il suo grande amore, incondizionatamente.
Non esisteva giudizio. Né tantomeno pregiudizio.
Poche volte ho visto un’amore materno così fortemente espresso.
Quasi con gioiosa prepotenza, tanto era stato costretto tra le pareti
della vergogna.
E tutto questo grazie ad una macchina fotografica, che come una chiave
segreta apre porte inattese.
Io avrei tanto voluto dirle che non doveva provare imbarazzo per l'aspetto
di suo figlio, ma l'avrei vissuta come una forzatura.
Era sufficiente vederla danzare allegra con suo figlio, tra i panni
stesi ad asciugare, le antenne della televisione, e le nuvole.
Non ricordo neanche più il suo nome.
Non so che fine abbia fatto.
Ho solo queste poche fotografie che condivido con voi, mantenendo
l'antica promessa di non mostrare il volto del figlio.
Quando mi chiedono cosa mi abbia insegnato la Fotografia, beh, penso che questa sia una splendida lezione.
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