Dhaka, febbraio 2020 |
Il compito o l'obiettivo della fotografia, come di ogni forma d'arte, è – a mio parere – la simbiosi tra ciò che quello che si prova o si pensa e ciò che viene mostrato. Se sentimento e risultato artistico viaggiano su binari divergenti cìè qualcosa che non va.
Che poi era quella visione positivista del linguaggio che aveva
Wittgenstein nel primo periodo del “Tractatus logico-philosophicus”, che mi
affascinò moltissimo quando ero uno studente di Letteratura e Filosofia
all'Università, e scrivevo moltissimo. Una parola ha un significato pertanto
chiunque legge quella parola capisce esattamente il senso di chi la pronuncia.
Poi lo stesso Wittgenstein comprese che non stavano proprio così le
cose, che una cosa sono i segni e un'altra il loro significato, e che
quest'ultimo varia in base alla storia privata di chi interpreta quel segno,
dei silenzi tra una parola e l'altra, dell'aspetto emotivo e fisico che cade al
di fuori delle parole, del “gioco linguistico” che se ne fa.
Questo vale non solo nella Filosofia del Linguaggio ma in ogni forma
artistica.
Io ormai ero convinto di aver superato quella delusione che mi aveva
portato ad abbandonare la scrittura e poi ad abbracciare con passione la
fotografia.
L'immagine ha il suo fascino nell'essere vaga, una suggestione.
Però, con mia amara consapevolezza, non ho perso quella visione
iniziale che mi spinge a credere che i segni debbano essere ancora lo specchio
limpido dei miei pensieri e sentimenti. Del resto io amo vedere le fotografie
di quei grandi maestri che hanno cosparso la loro anima in quelle immagini:
l'amore per la loro India di Raghu Rai o Raghubir Singh, l'infinito affetto di
Araki per la moglie Yoko, l'empatia di Mary Ellen Mark per le prostitute di
Bombay, la pietas di Follmi per i minatori in Bolivia...
Potrei andare avanti così per pagine e pagine.
Perciò non c'è delusione più grande di vedere il proprio lavoro non
capito, frainteso o, peggio, male interpretato.
E su uno dei centri nevralgici del mio sentimento, che è quello del
mostrare la bellezza dove apparentemente non si vede.
Io quando vado in qualsiasi città in Asia, cerco sempre di andare a
vedere con i miei occhi il luoghi considerati più brutti e pericolosi, perché
so che il pericolo è solo nella nostra testa e ci sono molte forme di
“sporcizia”, non solo quella degli abiti o delle case.
Nessuno potrà mai negare il mio sconfinato amore per il Bangladesh.
Credo di essere a Roma uno dei fotografi che da più lungo tempo prova a
raccontare la comunità bangladese che vive da noi, da oltre 13 anni: ormai è la
terza generazione che vedo crescere sotto i miei occhi.
Ho insegnato dal 2013 la cultura del Bangladesh attraverso i miei corsi
di fotografia. E infine sono riuscito ad andare in Bangladesh nel 2020, anche
se solo per un mese e solo a Dhaka.
Quello che io mostro è ciò che io ho visto.
Non si può nascondere il traffico, il groviglio umano che si muove
ovunque intasando strade e marciapiedi. Dhaka ha una superficie di 300 km²,
contro i 1.200 di Roma, è un quarto della nostra città ma con 14 milioni di
abitanti contro i 4 milioni di Roma.
Esistono i quartieri residenziali, le aree abitate dai diplomatici
eleganti e pulite ma senza movimento e chiuse dalla sicurezza.
Ci sono i centri commerciali che sono identici a quelli di ogni
capitale asiatica, e non così differenti dai nostri.
Poi c'è la vita. Quella che vedi affaccendata ai bordi dei marciapiedi
quando attraversi la città in rick-shaw. Quella dei mercati. Quella che lotta
per salire su un autobus, come accade ogni giorno ad ognuno di noi nella nostra
bella e moderna capitale. Quella che si veste di colori brillanti per sembrare
una farfalla che vola e si posa sulla spazzatura e il grigio delle strade che
non hanno nulla da invidiare ai nostri cumuli di immondizia con gabbiani, topi
e cinghiali. Senza però quel tocco poetico di colore dato dagli abiti delle
donne bangladesi.
Dhaka, febbraio 2020 |
Ecco, io ho sempre pensato che tutto ciò fosse chiaro, leggibile nelle
mie fotografie. Ma pare che questo possa offrire una brutta immagine di Dhaka o
del Bangladesh.
Non c'è cosa che mi rattrista e addolora di più. Con una ingenuità che
pensavo di aver perso, e un certo realismo alla Wittgenstein prima maniera,
veramente credevo che tutta la mia passione per la fotografia e l'amore per i
soggetti che ritraggo emergesse senza possibile fraintendimento.
Per me la vera ricchezza di un paese è nel suo popolo e non nella
pulizia delle strade o nei centri commerciali alla moda o nei paesaggi da
cartolina.
Non è un abito più o meno consumato o annerito dagli anni e dalla
strada che intacca il valore di una città, ma è in quel sorriso fatto ad uno
sconosciuto, anche in mezzo a mille difficoltà quotidiane, che sta tutta la
grandezza. Quello che noi abbiamo perso da molti anni che mi fa mancare l'Asia
ogni giorno.
Quella calma e colorata sopravvivenza che è il segno della vera anima
di un popolo.
Anche se sembra controintuitivo io veramente penso che ridono più i
poveri dei ricchi. Così come ridono più i bambini degli adulti.
Per me non esiste un modo migliore per raccontare una città se non
quello di mostrare la bellezza del suo popolo, i loro sorrisi, la loro
gentilezza.
Se questo non viene capito allora per me non ha più senso alcuno
continuare a fare fotografie, così come quando decisi di smettere di scrivere
poesie perché nessuno riusciva a comprendere totalmente il significato delle
mie parole e dei sentimenti che vi erano raccolti.
È ovvio – e per fortuna – che ognuno legge le immagini come crede e
sente, ma dovrebbe esserci sempre però il riconoscimento di quell'amore che
pervade ogni fotografia.
Se quei sorrisi, quei colori, quegli occhi luminosi non sono
sufficienti allora vuol dire che non so fare il mio mestiere.
Questo non vuol dire che non andrò avanti fino alla fine dei miei
giorni a cercare il colore ogni mattina e ad amare ogni persona sconosciuta che
incontrerò per la strada.
Ma questa ferita sanguinerà ancora per molto, molto tempo.
Dhaka, febbraio 2020 |
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