Stefano Romano. “Ritratto di donna thailandese”. Roma, febbraio 2023 |
La Fotografia in Thailandia è sempre stata legata al Potere, fin dalla
sua comparsa a metà del 1800. La prima immagine del Re Rama III fu realizzata
dal prete francese Padre Laurnadie alla fine del suo regno nel 1851, abbattendo
il taboo della proibizione di rappresentare il “corpo divino” del Re, anche per
l'atavica convinzione – comune a tutto il Sud-est asiatico e l'Asia – che la
fotografia potesse succhiare l'anima dei suoi soggetti ritratti.
Il Re Mongkut, Rama IV, fu il primo Re a posare in stile classico, anzi
comprese il potere che aveva la fotografia nel costruire l'immagine dignitosa
del Regno Siam, soprattutto rivolta agli altri sovrani europei a cui spediva
poi i suoi ritratti. Quelle fotografie iniziavano ad essere usate per le
relazioni pubbliche tra reali.
Fu allora che comparvero i primi fotografi thailandesi che lavoravano a
corte al servizio dell'immagine pubblica del Re: Luang Wisut Yothamat e Chit
Chitrakani nel 1860.
Come è ben raccontato da Zhuang Wubin nel suo splendido libro:
“Photography in Southeast Asia: A Survey”.
Durante il Regno di Rama V e il Re Vajiravudh (Rama VI), nei primi
decenni del Novecento, la fotografia divenne il mezzo privilegiato per
amplificare e rafforzare il potere del Re, divenendo quasi una legge sociale,
per cui ogni ufficio o negozio doveva avere una foto del Re regnante in quel
periodo. La formula per questo era ed è: “Riverire il Re è riverirlo attraverso
l'adorazione della sua immagine”.
Fino all'apice di questo legame fortissimo che si è avuta con il
precedente, ed amatissimo, Re Rama IX, appassioanato di fotografia e spesso
rappresentato con la sua macchina fotografica tra le mani.
Per questo il popolo thailandese, come altre culture asiatiche prossime
di cui ho già scritto in precedenza, ha sempre avuto un rapporto quasi magico
con la semiotica fotografica, la sua valenza simbolica.
L'animisimo che ammanta la fotografia ha similitudini e differenze con
quella che ha accompagnato la nascita della fotografia in Europa, non fosse
altro per il fatto che fu un'invenzione occidentale esportata in modo
colonialista in quelle terre lontane.
Ovviamente, al giorno d'oggi, culture, sentimenti e tradizioni si
stanno lentamente – e tristemente – omologando.
I social media avvicinano in un battito di ciglia una casalinga di
Milano ad una raccoglitrice di mango in una piantagione di un qualsiasi
villaggio indonesiano.
Però certe convinzioni rimangono sotto pelle, sono difficili a sparire
del tutto. Chi magari è cresciuto ascoltando le superstizioni o le paure dei
genitori o dei nonni credo che faccia fatica a metterle da parte del tutto.
E queste subconscie crededenze sono difficilissime da comprendere o da
prevedere.
Re Rama IX in una classica immagine. |
L'ho vissuto sulla mia pelle recentemente.
Premesso che, come molti di voi sanno, io cerco sempre di studiare e
informarmi il più possibile sulle culture che amo e che rappresento con le mie
fotografie, la cruda verità è che però non è facile essere consapevoli di ogni
cosa – sarebbe anche noiosa la vita se fosse così facile esaurire la completa
conoscenza di qualcosa.
Apprendere nuove informazioni è sempre un bene, certo conta anche il
modo in cui si è apprende.
A seguito di un evento dell'Ambasciata Thailandese, un paio di
settimane fa, ho pubblicato alcuni ritratti che avevo fatto ad una donna con un
abito tradizionale meraviglioso e che aveva anche danzato.
Le prima fotografie le sono piaciute moltissimo, siamo diventati amici
su Facebook e mi ha ringraziato.
Dato che era la terza fotografia che postavo di lei ho deciso per un
ultimo ritratto, ma in un diverso stile. Ispirato dalla bellezza del suo viso
molto raffinata e la meraviglia dell'abito ho postato un suo ritratto in bianco
e nero, leggermente seppiato, richiamando il fascino delle antiche cartoline
Siam che amo collezionare.
Con mia enorme sorpresa ho notato il giorno dopo che la donna mi aveva rimosso dalle sue amicizie e nei messaggi ho trovato due righe con un emoticon piangente in cui mi spiegava che in Thailandia le foto in bianco e nero si usano per le persone defunte.
…!?
Sono rimasto senza parole: ho subito tolto la fotografia perché
rispetto sempre i sentimenti di chi vi è ritratto, poi le ho chiesto scusa,
cercando di farle capire che non era certo mia intenzione e che era una cosa
che ignoravo completamente. So bene che in Thailandia ogni giorno della
settimana ha un colore specifico e che il lunedì ha il giallo, colore che
rappresenta la monarchia in quanto era il giorno di nascita dell'amato Re.
Ma che il bianco e nero è il colore dei defunti non lo sapevo anche se
non è così assurdo immaginarlo.
Del resto il bianco, a differenza della nostra cultura, in Asia è il
colore dei funerali e del lutto, ma lo è anche il nero. Messi insieme credo
siano un richiamo diretto alla scomparsa e alla morte.
Ho chiesto ad altri amici thailandesi la conferma di questo ma mi hanno
risposto che dipende dalla mentalità, a differenza del colore giallo che è un
dato di fatto per ogni thailandese, quella sulle foto in bianco e nero non è
una convinzione comune.
Ho cercato anche su internet ma nessuno ne parla.
Certo è che, a chi lo ha letto, vengono subito in mente gli scritti di
Scianna, le memorie della sua infanzia con il padre che faceva i ritratti alle
persone defunte per la foto sulle lapidi. E di come la fotografia era vista,
nel paesino della Sicilia a quell'epoca, come un modo “per ammazzare i vivi e
resuscitare i morti”.
In fondo la capisco quella donna, per questo ho tolto il ritratto
nonostante piacesse molto a me e anche agli altri. Le fotografie, specialmente
i ritratti, hanno un potere magico, e possono essere in grado di attrarre
magneticamente le nostre paure e le gioie.
E non nascondo che anche il mio amore smisurato per i colori possa
celare una lontana malinconia che mi suscita il bianco e nero, come se fosse in
effetti un frammento tolto dalla vita che è un flusso vivo di colore.
Alla fine ho imparato una cosa nuova e l'ho condivisa con i miei amici
fotografi. Poi ovviamente ognuno ragiona con la propria testa, potrò incontrare
in futuro decine di donne thailandesi che ameranno i miei ritratti in bianco e
nero, di sicuro – da adesso – lo chiederò sempre prima.
Rimane confermato il potere magico che esercitano le fotografie sulle
nostre psicologie imbevute di credenze e suggestioni.
Per chi volesse approfondire la storia della fotogrfia in Asia ricordo acnora una volta il libro fondamentale di Zhuang Wubin: “Photography in Southeast Asia: A Survey” (NUS Press - National University of Singapore, 2016)
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