Bangladesh, febbraio 2020 |
Le dita di Sushita Pal modellavano l'argilla
fin da quando era bambina.
Vederle muovere sulla pasta ocra era come
ammirare un ragno tessere la sua tela.
Se la maggior parte delle donne aveva la punta
delle dita e le unghie della mano destra color giallo curcuma, le sue
sembravano petali di tagete, il fiore arancione usato nelle ghirlande della
puja.
Dall'argilla creava splendide tepa putul, le
piccole bamboline tradizionali che resero la sua casta Patua famosa fin dal
passato.
Ogni mattina Sushita Pal si alzava al'alba e,
dopo aver pregato, si recava con sua figlia Shobha presso la riva destra del
fiume Jamuna per raccogliere l'argilla.
Sushita Pal non era troppo lontana dal
compiere quarant'anni e aveva cambiato più villaggi nella sua vita, rimanendo
sempre a Sirajganj, nel distretto di Rajshahi.
Ora viveva a Sayadhangara, con sua figlia di
vent'anni a cui aveva insegnato la sua arte .
Lei era profondamente orgogliosa di tale
abilità. Non solo nel modellare l'argilla ma anche nel dipingere le piccole
bamboline con colori sgargianti.
Aveva iniziato a questo lavoro Shobha fin da
quando era una bambina, sedute nella loro piccola stanza illuminata dalla
fiamma nelle notti che risuonavano di lucciole e rane in concerto.
Shobha fissava ammirata le dita di sua madre
che trasformavano un pezzo di terra rossa in figurine di donne con bambini tra
le braccia, animali, esseri stilizzati con braccia lunghe aperte ai lati come
ad accogliere l'universo intero, mentre l'odore acre dell'incenso pizzicava le
narici.
“Noi veniamo dall'India, nel lontano passato.
Dal Bihar, da Jharkhand. Migrando nei decenni, seguendo sempre il corso del
grande Brahmaputra fin dai tempi di Saraswati, la Dea dei flutti e dei fiumi,
quando ci chiamavamo ancora Chitrakar e peregrinavamo di villaggio in villaggio
e nelle corti dei Re con i nostri rotoli dipinti narrando storie in cambio di
cibo e denaro. Nessuno è abile come noi nella pittura e nel modellare
l'argilla.”
Diceva Sushita Pal con il sorriso delineato
dalla luce della fiamma. Shobha annuiva.
Erano da sole, ma erano felici.
Non tutte le bambine potevano vantare di avere
una madre artista e, in ogni casa del villaggio, vi era una putul fatta da lei.
I gopal, piccole statuine sacre di Krishna, a
decorare gli angoli di preghiera nelle case e le tepa putul di Sushita a
rallegrare i bambini.
“Allora, Ma, il nostro fiume è lo
stesso dei nostri antenati?”
Chiese Shobha con le mani timidamente intente
ad imitare quelle della madre sull'argilla.
“Si, figlia mia. Lo stesso grande Brahmaputra
che, da secoli, si divide in due rami e scende ad est per affluire nel Meghna,
mentre il nostro Jamuna finisce ad ovest nel Padma. Per noi, come per quasi
tutte le persone che vivono a Sirajganj, il fiume è la nostra vita – e spesso,
anche la nostra morte. Senza di lui non potrei mai creare queste.”
Disse mostrando una bambolina con le braccia
aperte a T, gli occhi enormi e due corone ai lati del volto piccolino sul collo
allungato.
Shobha non era riuscita ad andare a scuola e
non trovava nessuno che la sposasse. La gente del villaggio le conosceva. Così
come erano conosciute ad Ariamohon, a Kandarpar, dove era nata.
Ovunque andassero le persone sapevano presto
chi erano.
Nonostante Shobha invidiasse le donne con le
shaka ai polsi e il sindor rosso aveva deciso che, come sua madre si era presa
cura di lei fino ai vent'anni, così lei, senza amarezza, l'avrebbe accompagnata
alla vecchiaia.
Sushita Pal aveva dei lunghissimi capelli neri
che si arricchivano di piccole onde ogni tanto, come fossero veramente un fiume
di inchiostro accarezzato da una leggera brezza. All'attaccatura dei capelli
non c'era il rosso vermiglio del sindor ma l'argento di qualche capello bianco.
Le sopracciglia erano folte e lo sguardo era
duro e profondo. La pelle era ancora levigata. Il nakful, il piccolo
anello sul lato del naso, sembrava un sole dorato in miniatura. Le labbra
carnose dischiuse lasciavano intravedere un dente superiore più sporgente degli
altri ma non intaccava l'immagine di un viso bello e intenso.
Prediligeva i colori dalle tonalità scure e
spesso indossava l'orna nera.
La pelle delle mani e dei piedi era secca e
dura come quella di un coccodrillo – del resto, erano entrambe creature del
fiume.
Shobha invece era semplicemente meravigliosa:
il volto rotondo incorniciato dai lunghi capelli sempre legati a coda e la
pelle color legno.
Dormivano una vicino all'altra sul pavimento
circondate da decine di putul, alcune già dipinte e altre in attesa di
solidificarsi.
Erano la loro sopravvivenza.
Ogni mattina Sushita le metteva in un sacco e
le caricava in una grande cesta sulla testa, mentre la figlia portava una
cassetta di legno presa dal mercato su cui disporle per la vendita.
Giravano i mercati, percorrendo anche
chilometri a volte.
Ovunque andassero riuscivano sempre a venderne
qualcuna, abbastanza per comprare del riso, delle lenticchie e la verdura.
Era così conosciuta per la sua abilità che
spesso le ordinavano delle putul con fattezze e colori precisi.
Madre e figlia, sedute dietro la cassetta
coperta con una vecchia orna sbiadita e le putul dritte come fiori.
Quando il sole ormai iniziava a calare sulle
chiome degli alberi le due donne raccoglievano le loro cose, compravano ciò che
occorreva per la cena con i soldi guadagnati e tornavano al villaggio.
Ogni giorno simile a se stesso, da vent'anni.
Non tutti i giorni però erano identici.
Perché non tutte le persone che incontriamo
sono simili.
Il sole sorge e tramonta uguale a se stesso
dal giorno in cui Hiranyagarbha, l'uovo cosmico, si aprì in due gusci creando
il cielo e la terra, ma gli esseri umano che abitano la terra hanno mille
sfumature di colore d'animo, dalle tonalità più chiare alle più oscure.
Proprio perché indifesa e sola, mia madre, era
spesso importunata da un gruppetto di uomini che frequentavano il mercato. Era
già capitato.
Quando mia madre li vedeva arrivara da lontano
abbassava il volto e si zittiva, tirando con la mano in basso il bordo
dell'orna a coprire metà volto.
Il più delle volte erano risate di scherno,
oppure con i piedi alzavano la polvere verso le putul.
Quella mattina arrivarono in due, pancia
prominente, tarchiati come vitelli e la carnagione color dattero.
Giunti davanti a noi si fermarono. C'era poca
gente, il tempo non era buono e prometteva pioggia. Uno di loro si abbassò per
fissare gli occhi di Sushita rivolti verso le putul.
Ne prese in mano una: la base larga ad imbuto
e le braccia sul petto a reggere una micro-bambina, color oro e blu.
La girò tra le dita per osservarla bene, con i
denti marroni di lupo e gli occhi opachi.
“Buongiorno, boudi. Come stai?”
Allora capovolse la putul e infilò l'indice
nel cavo della base, muovendolo dentro e fuori.
“La tua bella bambolina è ancora vergine o è
già abusata?”
Il suo compare, in piedi con le mani nelle
tasche dei pantaloni, espolse in una risata. L'altro lasciò cadere la putul a
terra e si alzò ridendo sguaiatamente. Se ne andarono ancora ridendo.
Mia madre non si era mossa di un millimetro.
Il profilo immobile. Il nakful incastonato in
una lacrima.
Accadde durante il mese di Aswin, tra
settembre e ottobre. Nel 1971.
Avevo compiuto da poco sedici anni e mi sarei
dovuta sposare il mese successivo, a Kartik, nel mese propiziatorio di Durga:
era già tutto pronto.
Come ogni mattina ci recammo al fiume per
prendere l'acqua e l'argilla.
Al ritorno vedemmo arrivare un furgone
militare. Sapevamo che la guerra era iniziata ma pensavamo non avrebbe mai
raggiunto il nostro villaggio. Ci nascondemmo tra le piante e vedemmo i
militari pakistani trascinare giù dal furgone due uomini; li legarono ad un
albero e gli spararono.
Noi ci nascondemmo in una palude,
terrorizzate. Poi corremmo a casa.
Raccontai tutto alla mia famiglia. Prendemmo
un po' delle nostre cose e fuggimmo attraverso i cespugli. Eravamo vicini ad
una scuola dove vedemmo una donna che sapevamo aver partorito suo figlio tre
giorni fa. Nel villaggio arrivarono diverse jeep e furgoni militari. Cinque
soldati pakistani e i rajakar, i collaboratori dell'esercito pakistano,
entrarono in casa della donna. Dopo pochi minuti sentimmo solo delle urla
lancinanti che gelavano il sangue. Io tremavo come una foglia durante il
monsone e tenevo stretta la mano di mio padre.
Iniziammo a correre ma non facemmo molta
strada. Improvvisamente un gruppo di militari ci circondò con i fucili puntati.
Un rajakar di nome Biswas e un altro, Sayed, vennero alle mie spalle.
Presero me e mia madre. Mio padre morì davanti ai nostri occhi in lacrime
colpito dai fucili dei cinque soldati. L'ultimo ricordo che ho di lui è il suo
corpo riverso nella terra in una pozza di sangue.
Ci portarono dentro la scuola dove erano
radunate sul pavimento decine e decine di giovanissime ragazze e donne
completamente nude, tremanti e in lacrime, alcune con ferite sanguinanti sul
corpo.
Io implorai di lasciarci andare, con le
braccia tese verso mia madre a cui tre militari stavano strappando a forza il
sari, ridendo come maiali. Un soldato mi colpì violentemente sulla fronte con
il calcio del fucile. Persi i sensi con la percezione del sangue caldo che
colava in mezzo agli occhi. Fu una fortuna, perché nella nebbia che calava
pesante e mi chiudeva lo sguardo feci appena in tempo a vedere un militare
sopra al corpo di mia madre stesa a terra. Le urla. Il pianto, poi il buio.
Mi svegliai che ero già nel campo nella città
di Sirajganj, dove c'erano una ventina di militari pakistani e una quarantina
di rajakar, sotto gli ordini del Maggiore Muzaffar Hasan Gardigi.
Seppi che, appena portati nel campo, i
militari avevano separato gl uomini dalle donne e che le giovani ragazze e le
bambine erano a loro volta divise dalle donne sopra i cinquant'anni. Non avrei
rivisto mai più neanche mia madre.
©Hashem Khan. “Gift of razakars: Genocide and Torture”. Drawing, 2012 |
Rimasi là per cinque, sei giorni. Non ricordo
più.
Ciò che non posso mai dimenticare sono le
urla, giorno e notte, le implorazioni ad Allah e Vogoban, e i pianti.
E ciò che vidi.
Bambine e giovani donne, anche incinta,
abusate e torturate come fossero bestiame. Ogni sera, al ritorno dai villaggi e
dalle città dove uccidevano in cerca dei muktijoddhas, i freedom
fighters, sei o sette militari e rajakar ci violentavano, a volte
uno per uno in fila fuori dalle stanze della tortura, che erano stanze vuote
con un lettino fatto di canne di bambù e dei pali per legarci le mani o le
caviglie, persino per i capelli, oppure in gruppo. Ogni terribile ora, in ogni
momento della giornata, anche quando eravamo tutte insieme, umilitate davanti
alle altre donne. Chi piangeva veniva colpita con pugni o con il calcio del
fucile. Mentre erano sopra di noi, i maiali, chiedevano dove erano i nostri
mariti, i nostri figli, se avevamo parenti
muktijoddhas e ci spegnevano le sigaratte sulla pelle.
Ma a chi aveva il marito freedom fighters
toccava sorte ben peggiore.
Vedemmo una giovane donna violentata per ore a
turno da rajakar e soldati pakistani, alla fine il seno e i glutei le
vennero recisi con le baionette dei fucili mentre un altro di loro la torturava
con la baionetta in mezzo alle gambe finché morì dissanguata.
Quando fummo liberate sembrava che fossero
trascorsi mesi.
Non sentivo più il mio corpo.
Molte donne dei villaggi vicini non fecero in
tempo a vedere i loro aguzzini uccisi dai muktijoddhas quando vennero a
liberarci. Un gran numero morì prima per le violenze subite o sotto i colpi dei
loro fucili. La maggior parte impazzì.
Dopo la guerra Sheikh Saheb aprì un rifugio
per noi birangona.
Alcune ci rimasero per poco tempo, altre fino
alla fine dei loro giorni.
La stragrande maggioranza delle famiglie e dei
mariti che sopravvissero a quei tremendi nove mesi non accettarono più quelle
donne. Mogli, figlie, furono ripudiate perché portavano lo stigma indelebile
del nemico.
Chi rimase incinta si recò negli ospedali ad
abortire.
Io no. Shobha è figlia di quella miseria.
Ovviamente chi doveva sposarmi si rifiutò.
Non avevo neanche più una famiglia.
Solo cicatrici. Mia figlia. La mia arte.
Non volli neanche partecipare al rito
collettivo delle violenze e uccisioni dei rajakar in mezzo alle strade.
Non mi avrebbero restituito tutto ciò che
avevo perso.
Da allora fui chiamata birangona*.
CONTINUA...
* Birangona. Nei sei mesi della guerra di
liberazione del Bangladesh, da marzo a dicembre del 1971, l'esercito pakistano
e i rajakar, i loro collaboratori, uccisero tre milioni di civili e
violentarono, torturarono e ridussero in schiavitù sessuale un numero di donne
cha va dal dato ufficiale di 200.000 a quello più realistico di 468.000. Il
56.50% erano di fede musulmana e il 41.44% hindu. Oltre il 66% erano donne
sposate, il 33% ancora nubili. Uno studio del WCFFC Research riporta che il 90%
delle birangona intervistate soffrì di disturbi mentali legati al senso di
colpa per ciò che avevano subito. Tredici birangona su ventidue in Sirajganj
furono riconosciute come freedom fighters nel 2016.
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