Prima di tutto, naturalmente, bisogna scrivere



Rome, agosto 2020

“Prima di tutto, naturalmente, bisogna scrivere. Dopo di che bisogna continuare a scrivere. Anche quando non interessa a nessuno. Anche quando si ha l'impressione che non interesserà a nessuno. Anche quando i manoscritti si accumulano nei cassetti e li si dimentica, pur continuando a scriverne altri.”


Queste righe sono tratte dal racconto auobiografico che fa Agota Kristof in “L'analfabeta”, libricino di appena 50 pagine, pubblicato nel 2004, in cui una delle più importanti scrittrici del Novecento, racconta la sua infanzia felice in Ungheria, poi la fuga e l'esilio in Svizzera, passando per l'Austria,  nel 1956.

In poche pagine racconta la sua passione divorante per la lettura fin da bambina, gli anni difficili in colleggio in cui si pagava le scarpe rotte scrivendo piece teatrali da recitare a scuola. Poi la fuga, l'esperienza annichilente di vivere una vita piatta e senza speranza nel “deserto” dell'integrazione in una diversa cultura e, soprattutto, con una diversa lingua da maneggiare: il francese, che diverrà la lingua in cui scriverà tutti i suoi libri, ma che non conoscerà mai fino in fondo.


L'inizio è perfetto. Io adoro gli incipit. Leggerli e scriverli.

Le prime righe sono sempre tra le più importanti. Come la fine.


“Leggo. È come una malattia. Leggo tutto ciò che mi capita sottomano, sotto gli occhi: giornali, libri di testo, manifesti, pezzi di carta trovati per strada, ricette di cucina, libri per bambini. Tutto ciò che è a caratteri di stampa.

Ho quattro anni. La guerra è appena cominciata.”


Tecnicamente è impeccabile. Comincia declamando la sua passione avvolgente per la lettura. Non sappiamo quando: è al presente. Poi, il rigo dopo, dice che ha quattro anni. Allora capiamo che colei che divora qualsiasi cosa nella lettura è una bambina di appena quattro anni. 


In realtà, questo racconto autobiografico offre diversi spunti di riflessione.

Su di lei ho già scritto in precedenza, a proposito delle sue poesie.

La parte in cui racconta il senso di spaesamento e di alienazione in Svizzera dovrebbe essere letto da tutti quelli che ancora si lamentano dell'immigrazione o, più semplicemente, non la comprendono.

Nonostante lei abbia trovato rifugio e lavoro, nonostante la gente di là, rimane sempre una ferita aperta.

“Nella fabbrica tutti ci trattano bene. Ci sorridono, ci parlano, ma noi non capiamo niente.

È qui che comincia il deserto. Deserto sociale, deserto culturale. All'esaltazione dei giorni della rivoluzione e della fuga subentra il silenzio, il vuoto, la nostalgia dei giorni in cui avevamo l'impressione di partecipare  a qualcosa di importante, forse anche di storico, la malinconia di casa, la mancanza della famiglia e degli amici.”


Poche parole essenziali che fanno ben comprendere come si sente chi abbandona il proprio paese, per le guerre, la fame, in cerca di un lavoro e una vita migliore. Dove la vita migliore, spesso, è solo una mera condizione economica a cui non ccorrisponde quella umana ed affettiva.

Però vorrei tornare al paragrafo iniziale. Quello sulla scrittura.


“Prima di tutto, naturlamente, bisogna scrivere. Dopo di che bisogna continuare a scrivere. Anche quando non interessa a nessuno.”


Credo che questo semplice suggerimento possa valere per tutto ciò che ci appassiona. Ovviamente, per la scrittura ma è anche valido per la fotografia. Quante volte ci siamo sentiti spenti, svuotati di significato, come se ciò che si fa debba per forza rivecere un plauso o un apprezzamento dagli altri. Naturalmente, sapere che il nostro lavoro piace è rilevante, io per primo non scatterei forse fotografie se sapessi che nessuno le guarda, però qui il discroso è più profondo. È a prescindere.

È un impulso a non retrocedere mai. A non centellinare la propria passione.

Sembra quasi scontato dire che bisogna, naturalmente, scrivere ma non lo è. Perché, a volte, dobbiamo forzarci a farlo. 

Se poi a questa pigrizia si aggiunge anche il disinteresse, o peggio la critica, degli altri allora sembra la tomba della nostra creatività.

La Kristof ci sta dicendo che la scrittura, la fotografia, la musica, l'arte in generale è sempre una cura per noi stessi. 

È una naturale prosecuzione della nostra vita, come può esserlo il mangiare o il respirare. 

A chi interessa se noi respiriamo o meno se non a noi stessi?


Per questo motivo ho sempre amato Araki. Perché, per me, lui rappresenta, come Antoine D'Agata, l'esempio perfetto di totale aderenza tra vita e arte: Araki fotografa come se respirasse. Non lo fa per gli altri. È bulimico.

In Malesia comprai un suo libro intitolato “Ai No Balcony”, del 2012, in cui ci sono solo fotografie del suo balcone, sotto ogni angolazione, condizione climatica, vuoto o con la moglie o il gatto. Un libro assurdo.

Che senso ha vedere decine di immagini di un balcone?

Nessuna, forse. Ma piano piano ci pensi, le osservi, ed è come se percepissi il respiro di Araki. Il suo battito del cuore – non in senso romantico ma meramente fisiologico.

Il suo dito sull'otturatore è come fosse un saturimetro.

È un invito a seguire le nostre passioni soprattuto per il nostro piacere prima che quello degli altri.


Non dobbiamo scrivere, fotografare, comporre musica, scrivere canzoni, dipingere, seguendo ciò che le mode impongono, ciò che gli altri – fossero anche i nostri più cari amici – si aspettano da noi. Perché laddove non piace o non interessa saremmo schiantati dalla frustrazione.

L'arte è una cura. È la medicina più naturale che ci sia. 

È come la medicina sciamanica che cura le malattie attraverso l'uso della parola e del canto mistico. Perché dare un nome a ciò che ci fa stare male è il primo passo verso la guarigione, dai tempi dei guaritori tribali a Freud.

E le nostre pagine scritte, i versi, le foto, sono le nostre parole.

Attraverso le quali, molto spesso, comprendiamo meglio noi stessi.

Sono specchi di Lacan, agnizioni, epifanie.

A volte ferite, o chiodi, come il titolo delle poesie di Agota Kristof.


Magari una nostra poesia, una storia, un'immagine non interesserà a nessuno, non sarà degnata di uno sguardo, ma sarà stata il nostro ennesimo respiro, il nostro balcone privato su cui disporre ciò che ci aggrada, lucertole, gatti, dinosauri giocattolo, fiori secchi...

La scrittura produce scrittura. 

Solo continuando a scrivere si affina la penna, così come solo scattando si affina l'occhio.


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