“Oh...
Qualcuno può vedere la luce
Dove il mattino incontra la rugiada e la marea si alza
Ti sei reso conto che nessuno può vedere dentro la tua vista
Ti sei reso conto, perché questo sguardo ti appartiene.”
(Portishead, “Strangers”)
Questa volta voglio tornare a scrivere di musica.
Cosa che non accade spesso, nonostante sia una delle mie più grandi
passioni con la fotografia e la lettura: del resto, occhio, udito e mente e si
può dire che l'80% dell'essere umano è dato.
Per ora ho scritto giusto riguardo a Glenn Gould e Erik Satie, e con
mia grande sorpresa ho scoperto, recentemente, che proprio l'articolo su Erik
Satie è tra i più ricercati nel mio Blog.
A pensare che era nato come un Blog sulla Fotografia!
Ma meglio così, non ha senso darsi limitazioni. Io scrivo di ciò che
amo e, come sa bene chi mi conosce, sono una persona vorace e curiosa
soprattutto per quanto riguarda ogni forma di arte e cultura.
Pertanto, questa volta, voglio parlarvi di un disco che è tra i miei
preferiti in assoluto ed è legato ai miei vent'anni.
I cari vent'anni. Ci fu anche una bella serie di corti documentari
all'epoca su MTV Italia che si intitolava “Avere Ventanni”, con Massimo
Coppola, era il 2004.
Gli anni dell'università. Delle letture avide, gli ascolti musicali
compulsivi, le notti a ballare fino a tardi. Sono forse gli anni migliori che
non tornano più.
Poi, spesso, capita di avere la fortuna di essere presenti quando nasce
un nuovo fenomeno. Di esserci, sul tempo.
Certo non è proprio come fu per chi visse Woodstock nel '68 o assistere
ad un concerto di Nina Simone o Miles Davis, o esserci l'11 agosto del 1973
quando DJ Kool Here organizzava la prima festa hip hop della storia, però devo
dire che avevo proprio vent'anni esatti quando uscì il disco di debutto dei
Portishead.
Mi sono vissuto in tempo reale la nascita del trip hop, e credo che
ormai sia sempre più difficile assistere a fenomeni così impattanti a livello
musicale. Ormai ogni genere musicale è triturato alla velocità della luce e si
fonde in modo fluido con ciò che è venuto prima.
Adesso va tanto di moda la Trap ma aggiunge ben poco, a parte
l'autotune, all'hip hop. Forse Skrillex e la Dubstep sono stati l'ultimo nuovo
genere in ambito elettronico, ma ha prodotto ben poco, se non una miriade di
epigoni scadenti. Ben diverso fu la Jungle e la Drum'n'Bass che, non a caso,
hanno lo stesso anno di nascita e luogo del Trip Hop.
Niente a confronto della meraviglia magnetica che mi colse ascoltando
il debutto dei Portishead.
Da allora è rimasto uno dei miei dischi preferiti. Anzi, quando spesso
capita con i miei amici di intrattenerci con quel simpatico giochino dei tre
dischi da portare su di un'isola deserta (come dei tre libri), ovvero che
potrai ascoltare solamente quei tre per tutta la vita, bene, “Dummy” è uno dei
miei tre.
Quella fu veramente un'annata d'oro: il 1990!
Avevo ancora sedici anni quando iniziava a farsi un nome il “Suono di
Bristol”. All'epoca leggevo molte più riviste musicali e mi tenevo sempre
aggiornato, più di adesso.
La scena underground di Bristol fu un movimento culturale dei primi
anni '80. Erano per lo più musicisti e artisti di graffiti, che contaminavano
reggae, hip hop, con una forte competente visiva legata alla Street Art. Tra i
principali esponenti di questo fermento culturale c'era il Wild Bunch, un
collettivo di DJ attivo negli anni ottanta che mescolava i motivi elettronici a
quelli hip hop, dub, techno e house: uno dei membri fondatori della band Massive
Attack, Robert Del Naja, originariamente era un artista di graffiti, che collaborava
con l'artista locale Banksy, ora artista di fama mondiale e dalle quotazioni
stellari.
Il primo album che diede forma a questo nuovo genere fu proprio quello
dei Massive Attack, attivi dal 1987, quel “Blue Lines”, album d'esordio del
1991 che contiene il capolavoro “Unfinished Sympathy”, cantato da Shara Nelson.
Il gruppo, anche se formato dai tre membri della comunità artistica The
Wild Bunch: Robert “3D” Del Naja, Grant “Daddy G” Marshall e Andrew “Mushroom”
Vowles, era un collettivo più ampio in cui giravano diverse voci, tra cui
Tricky. Già quel disco, a primo ascolto, era molto particolare, con quel mix di
voci soul, reggae, su basi hip hop rallentate.
Nel 1994 uscirà poi il secondo album, considerato il loro capolavoro:
“Protection”, con ancora Tricky prima del suo abbandono per una carriera
solista.
Era il settembre del 1994. Paul Evans di Rolling Stone diede
all'album 4 stelle su 5, lo definì “un lavoro cool, sexy, che fonde
delicatamente dub, club e soul, affondando le sue radici nei campionamenti hip
hop”.
Indimenticabile la voce di Tracey Thorn sul brano che dava il titolo
all'album, con un video che rimane tra i più belli.
Però prima che uscisse quell'album iniziavo a leggere recensioni
entusiaste di un altro gruppo sempre sulla stessa linea di quel genere che mi
affascinava, quel trip hop che rimandava al “trip” (mentale) su basi hip
hop rallentate.
Fu perciò un grande piacere correre nel negozio di dischi a comprare
“Dummy” dei Portishead. Oramai che esistono quasi solo gli store virtuali e le
canzoni sono files a bassa qualità, non smetto mai di sottolineare il piacere
fisico che si prova a togliere la plastica da un cd, a toccarlo, a perdersi in
quel blu intenso della copertina, così è come per un libro che si sfoglia in
libreria e si annusano le sue pagine. Poi, arrivati a casa, nella propria
stanza, lo infili nel lettore e fissi le grandi casse nere in attesa che il
suono ti avvolga. E che suono che fu!
“Mysterons”, la prima traccia parte subito pesante, con quello
scratching che segna il territorio, poi però arriva la voce di Beth Gibbson, e
qui potremmo stare a lungo ad elencare sinonimi per descriverne la natura:
struggente, prima di tutto, graffiante, lancinante, dolorosa, malinconica.
Beh, quello fu uno di quei momenti in cui ti chiedi: ma che sto
ascoltando? Che cosa è questo? Un nuovo mondo.
Uscito il 22 agosto del 1994 per la Go!Beat Records l'album di debutto dei Portishead vinse il Mercury Music Prize nel 1995, da molti citato negli elenchi dei migliori album degli anni '90. “Dummy” fu certificato triplo platino nel Regno Unito nel febbraio 2019, per vendite di 900.000 copie; in tutto il mondo, l'album aveva venduto 3,6 milioni di copie entro il 2008.
Il primo nucleo del gruppo era formato da Geoff Barrow, producer e DJ,
e Beth Gibbons alla voce. Mentre stavano provando una prima canzone, “It Could
Be Sweet”, in uno studio, il chitarrista jazz Adrian Utley fu calamitato da
quel suono. Come raccontano in una rara intervista al The Guardian a Jude
Rogers, lui disse tra sé e sé: “Cos'è quello? Il solo sentire il sub-bass e la
voce di Beth era incredibile. Come un mondo completamente nuovo, davvero
eccitante e vitale”.
Quindi si unì a loro, aggiungendo alle sonorità urbane di Barrow la sua
passione per i vecchi film di spionaggio registrati in TV e i suoni insoliti di
strumenti come il cimbalo e il theremin.
Infatti fu proprio quello strano intruglio sonoro, secondo me, il
segreto del fascino senza tempo di quell'album.
La voce dolente della Gibson – che nell'intervista ammette di non
essere stata in un perfetto stato di equilibrio mentale durante la
registrazione del disco – che si appoggia su quei suoni che sono moderni ma
allo stesso tempo provenienti da un'epoca antica.
La produzione dell'album utilizzava una serie di tecniche hip-hop, come
campionamento, scratching e creazione di loop però non fu registrato in
digitale. I Portishead non solo hanno campionato la musica da altri dischi, ma
hanno anche registrato la propria musica originale che è stata poi riversata su
dischi in vinile prima di manipolarli per campionarli. Per creare quel loro
suono vintage particolare, Barrow ha detto che si sono accaniti sui dischi in vinile che avevano registrato
“mettendoli sul pavimento dello studio e camminandoci sopra e usandoli come uno
skateboard”, e in più hanno anche registrato il suono attraverso un
amplificatore rotto.
Certo non è un disco allegro, già dalla copertina con l'immagine fissa
della cantante Beth Gibbons tratta da “To Kill a Dead Man”, il cortometraggio
creato dalla band, grazie alla cui colonna sonora auto composta ottennero il
contratto discografico. La celebre rivista musicale NME così riassunse il
disco: “Questo è, senza dubbio, un album di debutto sublime. Ma così molto,
molto triste. Da un lato, il suo languido blues slow beat occupa chiaramente un
terreno simile alle anime gemelle Massive Attack e a tutta la famiglia
allargata dell'hip-hop di Bristol. Ma da un altro questi sono paesaggi lunari
ambient avant garde di natura ferocemente sperimentale”.
Certo, io che tra Mozart e Beethoven ho sempre fatto il tifo per
Beethoven (la cui gigantografia troneggia dall'alto della parete nella mia
stanza), mi sono innamorato follemente fin dal primo ascolto di questo disco,
dalla prima all'ultima, sublime, traccia, quella “Glory Box” che contiene il
sample di Isaac Hayes “Ike's Rap II”, lo stesso usato anche da Tricky nel suo
splendido album di debutto “Maxinquaye”, del 1995, su “Hell is round the
corner”, come a ribadire la comune provenienza di quel Suono di Bristol.
E non parlo neanche dei testi, perché per me la musica rimane essenzialmente
una questione di pancia, è fatta di suono, melodia, vibrazioni, piuttosto che
di significati e razionalità. Con un discorso a parte ovviamente per la musica italiana, la cui
comprensione è immediata e inalienabile, ho sempre preferito di gran lunga la
musica anche di altri continenti, etnica, proprio per evitare di comprendere –
lo stesso inglese quasi evito di capirlo proprio per lasciare alle parole
cantate la loro funzione di suono più che di significato: se devo leggermi un
testo allora me lo leggo sul libretto del cd oppure vado a leggermi un libro di
poesie.
Non a caso tra i miei ascolti preferiti c'è da sempre la musica techno,
che non è altro se non il battito primitivo del cuore dritto in 4\4, senza nessun significato o concetto se non
quello di essere puro suono che entra nelle ossa.
Poi certo, non si può eludere la voce straziante di Beth cantare in
Wandering Star, “the blackness, the darkness, forever”, o il pianto in Sour
Times, “nobody loves me, it’s true, not like you do”.
Quello che intendo è che lei avrebbe pure potuto cantare la lista della
spesa, ma con quell'intensità, carica emotiva e malinconia avrebbe sortito lo
stesso potente effetto.
Poi, per quanto riguarda il discorso relativo alle cose tristi, vale
qui lo stesso che vale per ogni forma d'arte. Esistono due vie di vivere
l'ascolto, la visione o la lettura di opere artistiche malinconiche: da una
parte esserne risucchiati come in un gorgo e peggiorare quello che era già una
nostra condizione triste di partenza; dall'altra usare l'arte come catarsi, lasciare
che siano le canzoni, le fotografie, le poesie, a farsi peso delle nostre
tristezze e lacrime per portarle via con loro, come se fossero spugne emotive.
Di sicuro ci sarà chi, dopo aver ascoltato questo disco per la prima
volta o chi già lo conosce bene, potrebbe pensare che io sia folle a sceglierlo
come disco da isola deserta, però è vero, sono passati più di vent'anni da quei
miei vent'anni, ma ancora lo ascolto con immenso piacere, non mi stanca mai.
Ed è perché in me c'è fortissima la dominante malinconica, la predilezione
per le note basse, il violoncello piuttosto che il violino, il basso alla
chitarra, Nina Simone, i Cure, la cassa profonda della techno.
Per cui avrò sempre bisogno di qualcosa fuori da me in cui
abbandonarmi, che sia un suono, una immagine, un verso, una malinconia che
attragga la mia carica simile per alleggerirmi di quel dolore.
Dopo quel primo disco di debutto, i Portishead realizzarono altri due
dischi e un live con l'orchestra poi Beth Gibbson si è dedicata ad una carriera
da solista. L'anno dopo uscì il disco di Tricky, e da allora dozzine di gruppi
hanno provato ad imitare quel suono per decenni e il termine trip hop andò
perdendo di significato, divenendo un calderone in cui ci finirono gruppi come
gli Archive, gli Smoke City, Pressure Drop, Morcheeba, Hooverphonic. Mi fermo
qui ma potrei andare avanti per pagine e pagine. Insomma, pochi con lode e
tanti altri con infamia. Vale più la pena recuperare le prime antologie che
uscivano negli stessi anni, come quelle di culto “Headz 1 & 2” per la
Mo'Wax o “Back in the Base” per la Ninja Tune, che raccoglievano il meglio
della scena di abstract hip hop strumentale che era alla base del trip hop –
album che sono ormai introvabili o a prezzi per collezionisti e che sono un vanto
della mia collezione.
Mi dispiace anche che, mentre sono riuscito a vedere in concerto in
Italia sia i Massive Attack che Tricky, non ho mai visto i Portishead.
Ne scrivo qui perché penso che questo Blog sia nato per condividere con
voi tutto ciò che amo e mi appassiona. Non fosse altro che potrebbe appassionare
allo stesso modo anche solo uno di voi.
Questo disco è per me uno splendido ricordo dei miei vent'anni, ma è
sempre qui con me, come una fotografia che uno scatta e tiene stampata sulla
propria scrivania.
Quasi provo invidia per chi non lo ha mai ascoltato e magari lo fa oggi
per la prima volta, anche se ormai è un suono che è divenuto comune (anche se
mai nessuno a quello stesso livello di originalità).
Ma quella voce no. Beth canterà sempre per noi, per le nostre
tristezze, facendosene carico, come solo le stelle hanno potuto fare: Nina
Simone, Janis Joplin, Amy Winehouse...
...e che ognuno aggiunga la sua stella alla notte.
‘Dummy wasn’t a chillout album. Portishead had more in common with Nirvana’
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