Pesantren Al-Imam, Quattro Anni Dopo


Sukabumi, October 2017
Sukabumi, Ottobre 2017

Era l'ottobre del 2017 quando ricevetti l'invito a visitare una scuola gestita da una mia carissima amica che avevo conosciuto a Kuala Lumpur, Ibu Dian e suo marito.

Quei due giorni finirono anche nel mio secondo libro Sweet Light”, in un breve capitolo dedicato proprio a loro. Così scrissi:

 

“Due giorni a vivere nella grande Scuola Islamica Pesantren Yatim dan Dhu'afa “Al-Imam” in Cikembar, Sukabumi, nella parte occidentale di Java.

La scuola esiste dal 1994, fondata da Pak H. Abdul Malik, e ospita più di duecento studenti poveri e orfani da gran parte dell'Indonesia, Riau, Sulawesi, Kalimantan, specialmente da NTB e NTT, come Flores. Almeno oltre cinquanta di loro non ha più un genitore o entrambi.

La Scuola ha dodici insegnanti, che insegnano materie islamiche e ciclo normale di studi. Ha una grande moschea interna, la moschea “Al-Furqon”, ma i costi di mantenimento sono molto alti, e i ragazzi mangiano spesso solo riso, si lavano i vestiti da soli, e le ragazze vivono in un singolo piano dell'asrama, la residenza per le ragazze. Dormono in cinquanta in singole stanze, in attesa di costruire il secondo piano.

Tutti loro sognano di diventare imam, insegnanti nelle scuole e nelle madrasse, dottoresse, di viaggiare tanto, c'è chi vuole diventare fotografo.

Hanno ambizioni come ognuno di noi, anche se non hanno più una famiglia.

Sono ragazzi e ragazze che si divertono, giocano, saltano la corda e pregano tantissimo. E noi con loro. Per loro.

Ci sono alcune fotografie che sono dei simboli, come questa, scattata nella moschea della Pesantren “Al-Imam”. Io ho ascoltato per un giorno intero le storie e i sogni di questi ragazzi e ragazze. Le loro speranze. E vedere questa ragazza trovare un varco tra le sbarre, mi sembrava come se lei volesse uscire da questa situazione, superare le sbarre che la imprigionano nella sua condizione disagiata. Grazie alla preghiera, lo studio, l'amore dei suoi insegnanti, la forza delle sue amiche. Con la speranza che non ci siano mai sbarre per queste vite, e che crescere in condizioni difficili non sia un marchio a vita. Le cose possono cambiare in meglio, basta credreci. Basta trovare un varco.” 

(“Sweet light – Meraih Cahaya Melalui Fotografi”, Mizan, 2018)



Ricordo ancora con affetto quelle due giornate e la notte trascorse là, soprattutto una scena buffa.

Arrivai la sera tardi il primo giorno, perciò tutti già dormivano e io andai nel mio alloggio. Al mattino presto mi alzai con i raggi del sole e con un fruscio fuori la porta. Ovviamente, dato il caldo di quei luoghi, io dormivo sempre in pantaloncini corti e maglietta; incuriosito dal fruscio che veniva da fuori andai ad aprire la porta: mi trovai davanti sei ragazze completamente coperte da uno spesso niqab che lasciava scoperti solamente gli occhi, con le scope tradizionali indonesiane fatte di sottili rami di legno intrecciati, che stavano pulendo lo spazio davanti il mio alloggio. Appena ci guardammo entrambi ci fu un urlo da ambo le parti, per l'imbarazzo, dato che io ero in pantaloncini molto corti – io  chiusi la porta di colpo e loro corsero via di lato.

Dopo essermi vestito meglio uscii di nuovo e loro erano ancora là a pulire, mi scusai, mi presentai e feci le mie prime fotografie.

 


Il giorno stesso incontrai tutti gli studenti per un discorso sulla Fotografia e il mio lavoro. Nonostante la Scuola era severamente separata da una zona maschile e una femminile, io avevo il permesso di girare ovunque.

Furono due giorni che non ho mai dimenticato.

Passato l'impatto della mia presenza, il secondo giorno lo spesi quasi del tutto a parlare con i giovani studenti.

Soprattutto, non dimentico le due ore con le ragazze. Abituate ormai alla mia presenza mi fece sedere nel cortile del loro alloggio, scoprendo anche il volto, e parlammo tanto. Come ho scritto nel libro, mi tempestarono di domande e curiosità sul mondo; erano avide di sapere.

Io feci di tutto per infondere a ognuna di loro ciò che in lingua indonesiana si dice “semangat”, un termine di difficile traduzione, ma che è una sorta di entusiasmo, di forza di vivere, di combattere e non arrendersi mai.

Io ci speravo veramente – dentro di me – che almeno qualcuna di loro potesse raggiungere i suoi sogni.

Era il 2017.

 


 



Qualche giorno fa, su Instagram, ho visto qualcuno che condivideva una mia fotografia proprio con quelle ragazze, quella giornata, scrivendo che era una memoria del tempo trascorso con un fotografo dall'Italia.

Così sono andato e vedere e mi sono stupito perché le fotografie di quella ragazza non c'entravano niente con ciò che avevo visto a Sukabumi.

Anzi, erano addirittura in Turchia, a studiare alla Fatih Sultan Mehmet Vakif University di Istanbul.

Una ragazza sorridente, ben vestita, anzi molto elegante, in vari luoghi della Turchia. Lestari, il suo nome, 21 anni.


Lestari


Perciò abbiamo iniziato a parlare e, ebbene sì, lei era proprio una di quelle ragazze sedute intorno a me, che sognavano di diventare medici, insegnanti, viaggiatrici.

Fui piacevolmente stupito.

Mi ha raccontato che aveva ormai terminato la Scuola un anno e mezzo fa e che era riuscita, grazie a suo padre, i fratelli e sorella, a trovare i soldi per venire a studiare all'università in Turchia: Storia.

Le ho chiesto come è stato possibile e se le altre ragazze erano ancora là.

Lestari, immagino con un tono di amarezza nella voce, mi ha risposto che sì, tutte erano ancora nella scuola e non era facile riuscire a trovare un futuro.

Lei ha avuto la fortuna di avere ancora suo padre e che il suo desiderio fosse lo stesso di Lestari, ovvero quello di riuscire a studiare oltre i confini dell'Indonesia.

Un sogno enorme, se immaginato nel chiuso delle mura della Scuola, ma che alla fine ha trovato il suo percorso.

“Io ancora ricordo Stefano quanto semangat ci hai dato”, mi ha scritto Lestari.



In una giornata come tante, pressato dagli impegni e dai pensieri che ci obnubilano la mente ogni giorno, questa piccola storia mi ha fatto sorridere, nel senso più puro del sorriso e della sua importanza.

Parlare di sogni, soprattutto con i ragazzi, specie se in situazioni difficili, può sembrare utopistico se non beffardo, o lezioso.

Eppure io ci credo veramente. I sogni non hanno colore, razza, lingua o casta.

I sogni sono il legame con il divino, quel filo invisibile e lucente che lega le nostre anime alla sfera celeste sopra le nubi.

Realizzarli è la nostra sfida ultima ma crederci è il nostro dovere quotidiano.

 

Dedicato a tutte le ragazze e i ragazzi della Pesantren Al Imam.











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