Lecce, 13 Agosto 2009 |
Bambini e Colore
Roma, 16 Agosto 2009 |
Quasi tutte le fotografie di quel periodo sono in bianco e nero, perché
quando si è agli inizi si è abbagliati dal fascino del bianco e nero, che è
forma e sostanza.
Anche perché quando si vedono le immagini dei grandi maestri che hanno
fatto la storia della fotografia quella è la note dominante.
Poi però arrivano i bambini e loro portano la gioia e il colore.
Come intitolai la mia prima mostra fotografica, proprio con i loro
ritratti, “Children save me”, i bambini mi salvano.
Sarà forse perché ho trascorso la mia infanzia tra i reparti di
pediatria degli ospedali e non è stata proprio come quella degli altri bambini.
Pertanto è come se quella fase della vita, la più bella, fosse rimasta
incapsulata nel ripostiglio della mia anima.
E tuttora sono convinto che loro riescano a sentirlo.
Esiste un filo invisibile che mi lega a loro.
Proprio perché incapsulata la mia infanzia non è mai sparita del tutto,
e questo solo i bambini lo sanno.
Questa fotografia della piccola bambina filippina che balla per strada
(giling, in tagalog) è stata a lungo tra le mie preferite e anche di
molti dei miei amici.
La sua allegria è incontenibile e contagiosa.
Come il colore.
Se il bianco e nero sono, appunto, forma e sostanza, l'essenziale, il
colore è il superfluo, la distrazione, ma anche la ricchezza che porta con sé
nei suoi significati simbolici e culturali.
Poi per me le risposte non sono molte: io prediligo il colore perché
l'esistenza è a colori.
Il colore è sostanza della vita stessa, più della forma.
La mia mente visiva segue il percorso della pittura che dalla
precisione del Rinascimento è giunto alla disintegrazione delle forme in pure
macchie di colore dell'Impressionismo prima e dell'Espressionismo poi.
Così come i bambini rompono le regole delle nostre vite ben delineate,
con i loro scoppi di risa e le loro improvvise danze.
Quasi tutti i miei ritratti sono di donne e bambini.
Ciò che amo di più.
La foto della piccola filippina che danza non ha tempo, potrei averla
scattata ieri.
E spero che sarà la stessa che scatterò tra vent'anni.
Composizione e Metafora
Lecce, 13 Agosto 2009 |
La composizione è tra le cose più complicate che si imparano in fotografia e serve molto tempo.
Poi credo esista anche un occhio assoluto come in musica c'è l'orecchio
assoluto, per cui – in rarissimi casi – l'occhio è un congegno perfetto che
regala immagini impeccabili anche in pochi scatti.
Henri Cartier-Bresson, per dire.
Non è forse un caso che molti tra i più famosi fotografi amavano anche
dipingere e la musica.
Per me la composizione è stata sempre molto importante, e la fotografia
rimane in essenza l'atto di mettere l'occhio nel mirino, ovvero un rettangolo
vuoto da riempire. Ad esclusione di tutto il resto.
In questo penso mi abbia aiutato molto il disegno e la pittura che ho
praticato fin dall'infanzia.
Alla fine, il foglio bianco è lo stesso del quadrante del mirino della
macchina fotografica.
È diverso solo il tempo della riflessione.
Nel disegno possono essere ore, nella fotografia anche millesimi di
secondo.
Questa immagine è stata scattata in Puglia, nel paesino di mare che è
stato il luogo delle mie vacanze estive per trent'anni.
Ci sono quattro vecchietti seduti su una panchina.
Dietro di loro una pianta in un vaso.
L'idea era quella di creare un legame visivo e simbolico tra loro
quattro e i quattro rami della pianta.
Quasi una sorta di circolo dell'esistenza: dalla vitalità della pianta
alla caducità dell'età anziana.
Con la cornice naturale che fa da quinta ai quattro vecchietti –
composizione e metafora.
All'epoca non conoscevo la foto di Marc Riboud che è tra le mie
preferite, né tantomeno immaginavo che l'idea di usare la fotografia come
metafora sarebbe stata importante nel mio lavoro.
Perché la fotografia usa gli elementi delle immagini come parole perciò
può descrivere o suggerire.
Riuscire a cogliere, ogni tanto, una buona immagine poetica significa
aver abituato l'occhio a vedere ciò che c'è oltre quel velo sottile e grigio
che ammanta le cose.
Il più delle volte si chiama abitudine.
La Meraviglia
Piazza Vittorio. Roma, 22 Giugno 2009 |
“Niente stupisce quando tutto è stupore: è lo stato dell'infanzia.”
Scriveva Antoine Rivarol nel 1852.
Voglio concludere con la fotografia di questo bambino filippino.
Perché penso che la meraviglia sia il motore di tutto, non solo della
fotografia.
Il momento che smettiamo di meravigliarci iniziamo a morire.
Intitolai questa fotografia “Astonished”.
In realtà io ero sorpreso quanto lui del suo sguardo, mi sembrava – e
ancora mi sembra – un piccolo marziano atterrato davanti a me.
Lo so che è solo l'entusiasmo dettato dalla scrittura del momento, ma
mi verrebbe quasi da affermare che in questa immagine c'è il segreto di tutta
la mia visione della fotografia. Della mia vita intera.
Quella capsula nascosta nel labirinto di vene che dal cuore porta agli
occhi e alla mente.
Rappresenta ciò che non sono mai riuscito ad essere prima e che tento
di viverlo ogni respiro della mia piccola esistenza.
Quella di un marziano con la macchina fotografica.
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