Passato e Presente – Prima Parte


Centocelle. Roma, 12 Giugno 2009

 

Salvando le fotografie recenti in differenti hard disk esterni, come faccio ogni tanto, mi sono imbattuto in una cartella che conteneva le mie primissime fotografie, datate giugno 2009.

Posso quindi affermare con certezza che quello fu il periodo in cui tutto ebbe inizio: il mio presente di fotografo.

Erano per lo più immagini in bianco e nero scattate con una bridge della Sony che non so neanche più che fine abbia fatto, però aveva lo schermo movibile che mi permetteva di rubare le foto.

Il coraggio si apprende con gli anni, non solo la tecnica.

Comunque fa sempre effetto vedere quelle immagini, perché dal presente si può tornare indietro a quello che eravamo ma dal passato non si può sapere ciò che poi diventeremo.

Sono fotografie avvolte di ingenua innocenza, che è poi proprio quella che spesso ci lascia una nota amara in bocca, perché è impossibile da ritrovare dopo molti anni. Tredici anni non sono una vita, c'è chi scatta da oltre quarant'anni, però sono anche un tempo sufficiente a cambiare pelle molte volte. E per me è stato così.

 

Di tutte queste fotografie ne ho scelte alcune, perché ogni fiore mantiene la linfa delle sue radici e vorrei provare ad usarle come esempio della visione della fotografia che ho maturato in questi anni.

Allora non lo sapevo ancora ma adesso posso vederlo chiaramente e leggermi a ritroso nel tempo.



Curiosità culturale

Piazza Vittorio. Roma, 18 Giugno 2009

Era mia abitudine andare a Piazza Vittorio all'epoca, perché i mercati sono sempre stati una mia passione, in Asia come a Roma, e rimangono una palestra importante per ogni fotografo, soprattutto nei suoi primi passi.

Molte delle fotografie di quel periodo sono state scattate nel mercato di Piazza Vittorio, ricco di volti interessanti e miscuglio di etnie.

Lo stesso vale per il piccolo parco adiacente al mercato.

È là che ho incontrato Tanuja. È incredibile come ormai io dimentichi velocemente molte cose, segno di una memoria che cade a pezzi, ma ancora ricordi il nome di questa donna dello Sri Lanka dopo così tanto tempo.

Non l'ho mai più vista, solo quella mattina.

Forse perché ardente di passione per un nuovo mezzo di espressione ero più attento ad ogni singolo particolare, perciò lei ha ancora il suo nome, mentre centinaia di ritratti sono rimasti solamente volti.

Era da qualche anno che frequentavo la comunità filippina e già conoscevo bene i ritratti di Steve McCurry, che furono i primi libri fotografici che comprai.

Iniziava dentro di me una sorta di prurito intellettuale per le diverse culture e per i volti differenti. Di lei mi colpirono i capelli, lunghissimi, mai visti in vita mia così lunghi.

Le feci qualche fotografia da lontano, lei si accorse di me perciò mi avvicinai e le chiesi se potevo fotografarla meglio perché ero meravigliato dai suoi capelli. Il suo volto si illuminò e mi sorrise, mettendosi quasi in posa, di certo fiera della sua lunga chioma.

Fu allora che mi disse il suo nome e che veniva dallo Sri Lanka.

Adesso capisco a fondo, ed è parte indissolubile e fondamentale dei miei ritratti, quanto una fotografia possa rendere felici le persone con poco.

Soprattutto le donne straniere che vivono e lavorano qui da noi.

Quello che penso a riguardo credo di averlo ben scritto in un recente libro, pubblicato nel 2021, sul senso della bellezza nelle donne della diaspora del Sub-continente indiano.

“Questo ho imparato negli anni, che la fotografia insegna la bellezza alle stesse donne ritratte, in primo luogo, poi agli altri che vedono le immagini.

Ogni ritratto è un ritaglio rubato alla routine quotidiana che le porta a dimenticarsi di sé.

[...]

Allora la cura incredibile che rivolgono al make-up, alle acconciature dei capelli e a tutto l'abbigliamento durante feste o cerimonie assorbe in completo il senso profondo di bellezza e cura di sé.

Non è semplicemente vanità femminile.

Sentirsi o “trovarsi” (in fotografia) belle compensa e bilancia tutte le frustrazioni che amareggiano la vita di tutti i giorni.

È un urlo orgoglioso e potente di femminilità, che acquista una valenza altamente simbolica come molte altre pratiche psicologiche nelle esistenze quotidiane delle comunità migranti in Italia.

Ciò che sembra cosa di poco conto per noi, per chi vive lontano dal proprio paese e dalla famiglia, dagli amici cari, dai piccoli gesti compiuti ogni giorno, diventano risacche di felicità e medicine per la nostalgia.

Ecco perché è stato e rimane per me un privilegio essere lo specchio della loro vanità.

Perché la fotografia non è solamente un modo per sottolineare la loro bellezza – vera o presunta che sia – ma è anche un modo per attenuare la morsa della nostalgia.

Guardarsi nella propria immagine non è riducibile a Narciso che si osserva sullo specchio dell'acqua, ma è qualcosa che esula anche da tutti i discorsi fatti all'inizio, sul dovere di piacere e sull'essere agite da modelli culturali o dai desideri dell'uomo: questo accade al di fuori dei bordi della fotografia, per citare Wittgenstein.

In quel rettangolo (di senso privato) c'è solamente la donna che guarda e conferma a sé stessa che, costante tutto, è ancora felice di essere ciò che è diventata. Egoisticamente felice.”

 

Tanuja fu solo una delle prime donne straniere che ho ritratto, e non sapevo ancora che una semplice fotografia può diventare una porta spalancata su un intero paese e la sua cultura.

È sufficiente una lunga chioma per alimentare la curiosità nel conoscere la storia e la ricchezza del suo paese di provenienza.

E ancora di più, non immaginavo quanto un sorriso innocente alla propria macchina fotografica possa essere una medicina preziosa per la nostalgia.



Empatia

Piazza Vittorio. Roma, 20 Giugno 2009


Il mio ultimo libro è stato la raccolta di Racconti Asiatici, che fortunatamente è piaciuto molto, con le sei storie di donne da sei diversi paesi dell'Asia.

In tanti mi hanno chiesto come sia riuscito a scrivere così profondamente dal punto di vista di una donna, dalla sua testa.

Di certo non ho nessuna ricetta, so solo che lo faccio da quando ero bambino. Osservare le persone e cercare di capire come sono le loro vite, cosa provano, sviluppando un forte istinto ed empatia.

Come disse una mia cara amica insegnante in Malesia ai suoi studenti in una lezione: “Noi non vogliamo simpatia, noi vogliamo empatia.”

Questa donna anziana, penso indiana, era seduta davanti a me proprio nel centro del mercato di Piazza Vittorio.

Persa nei suoi pensieri non si accorse minimamente che la stavo fotografando.

Feci tre scatti, uno da più lontano poi andai zoomando fino a questo ultimo che è il mio preferito.

Come se il movimento dell'obiettivo che si avvicina fosse la mia carica empatica: quasi a volere entrare nella sua mente, leggere cosa piegava a terra il suo volto solcato dalle rughe.

L'empatia è la dote fondamentale – per me – per un buon ritratto, perché rende possibile la vicinanza e permette di capire, prima, se una persona vuole essere fotografata o no.

In una sua forma il ritratto è sempre una sorta di violenza. È l'imposizione del nostro sguardo su qualcuno che non sa neppure chi siamo.

Se poi non se ne accorgono è ancora più forte la violenza, perché è il travalicamento della loro solitudine.

L'unica attenuante rimane perciò l'intenzione, e l'amore.

Io mi sono convinto, non per ingannare quel senso di violenza, che, come molti popoli credono, la fotografia non ruba solo l'anima ma può anche tirare via le solitudini, farsi carico delle tristezze, non fosse altro che per la momentanea condivisione dello scatto.

Io non saprò mai che cosa provasse in quel momento quella donna anziana, quale pena o stanchezza, però credo che in questa fotografia ne siano rimaste delle tracce che hanno alleviato parte di quella pena.

Lo so, è uno stupido sogno. Ma è anche ciò che penso oggi.

In questa immagine adesso riesco a leggere il cammino evolutivo della mia empatia.

 

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