Sulla Messa a Fuoco

La messa a fuoco è un argomento interessante in Fotografia. Essa è di sicuro un metro di valutazione per una buona fotografia, ma di certo non è e non deve essere una regola dominante.

Io partirei già dalla bellezza delle parole, che sono sempre per me una barca nel mare dei significati da cui io mi faccio trasportare volentieri: “mettere a fuoco”, che perde la sua potenza nelle sue traduzioni, ma che è appunto un bruciare con la forza della luce ciò che è davanti a noi per catturarlo nelle nostre fotografie attraverso i nostri occhi.

Mi piace fare riferimento ad un interessante e profondo saggio sulla fotografia di Riccardo Panattoni: “Black out dell'immagine – Saggio sulla fotografia e gli anacronismi dello sguardo” (Mondadori, 2013).

La memoria infatti, come scrive Giorgio Agamben, non è possibile senza un'immagine, senza un “phantasma” che si pronunci alla stregua di un'affezione, un “pathos” della sensazione e del pensiero. Le immagini interiori sono sempre cariche di un'energia destinata a turbare il corpo, a farlo vibrare come in accenno di movimento. 

Appunto, il “pathos” che fa vibrare – sfocando – da dentro il nostro corpo che ricorda e vede. Io credo che ci sono immagini che sono belle proprio nel loro essere sfocate per il loro troppo essere a fuoco sul pathos interiore, la messa a fuoco non è all'esterno, come le classiche immagine, ma è puntata sul sentimento, su ciò che sta accadendo dentro le persone che stiamo guardando.

Sono il “phantasma” delle loro emozioni, e ogni fantasma ha i contorni indefiniti ma ci colpisce dentro in maniera più forte di un corpo definito e reale. Proprio perché siamo noi a dovere completare l'azione di mettere a fuoco, provare a definire ciò che è indefinito davanti a noi, ma carico di sentimento. Le immagini sfocate sono le nostre immagini innteriori dei nostri sentimenti.

Sempre come scrive magnificamente Panattoni a proposito della luce santa della beatitudine di San Tommaso che paragona alle immagini fotografiche:

Questa visività della luce, nella trasparenza dell'immagine, lascia affiorare in noi un sentire che si avvicina molto a quella che possiamo considerare una speranza. L'irreparabilità di ciò che è stato risplende infatti in piena luce, il suo essere definitivamente passato è ribadito senza alcuna possibilità di rimedio e tuttavia la sospensione statica di quell'evento è visivamente ancora nel mondo.

La luce che porta con se la speranza, delle emozioni che sono passate ma che rimangono davanti a noi racchiuse nelle immagini.

Un figlio che improvvisamente abbraccia la madre e la bacia, in un attimo, facendola esplodere in una risata di gioia, come una fiamma che si accende all'improvviso in un istante illuminando tutta la scena e poi si tace; ma ormai impressa, per un micro secondo per sempre nella storia: sfocata, mossa, indefinita, ma piena del pathos delle nostre emozioni, e carica di speranza, di luce beata.

Come la fotografia di Domon Ken, il Maestro del Realismo giapponese, dove realismo non è semplicemente la riproduzione fedele della realtà, ma anche quella dei sentimenti, che molto spesso sono appunto “sfocati” per un eccesso di messa a fuoco, inteso come pathos, che è ciò di quanto più vicino al nostro cuore.



Ananda Nogor.  DHAKA, 14 February 2020 (c) Stefano Romano

“Gemella non vedente”, dalla serie Hiroshima, 1957 (c) Domon Ken