Jawa, 1930 |
“Il passato non è mai morto. Non è nemmeno passato”.
Scriveva in modo splendido William Faulkner nel suo “Requiem per una
monaca”.
Il tempo. Ognuno di noi lotta, a suo modo, contro questo pitone che si
avvolge sui nostri corpi.
Ognuno a suo modo. Chi per dimenticare e chi per ricordare.
Ognuno di noi reca negli abissi della propria anima una ferita che vorrebbe
svanisse dalla pelle e chi invece si tatua ogni centimetro del cuore per
impedire che l'oblio si prenda ciò che ci è caro.
Io, come tutti, ho veleno e miele.
Ma sono completamente rapito dal tempo e dal suo fluire, forse perché
fino ad oggi non riesco a fare a meno dei ricordi dell'infanzia.
È come se una parte di me fosse per sempre imprigionata a quei lontani
anni, con i suoi incubi e le emozioni.
Guardando allo specchio il mio volto con le prime rughe e il bianco che
mi colora, ancora riesco a intravedere il me stesso dei giorni andati,
dell'infanzia, e dell'adolescenza. Si sovrappongono.
Forse, la mia è una esistenza non riuscita, bloccata nel suo divenire
come se un macigno si fosse posato sull'estremità della coda del serpente che
sono.
E così torno alle mie fotografie antiche.
Anche se non sono io; ma altri luoghi e secoli passati.
Le sovrappongo a quelle che io scatto, ascolto i loro dialoghi.
Mi parlano.
Come se anche quei volti, quelle persone sconosciute, nei loro toni di
seppia e bianco e nero stinto, fossero imprigionate come me.
In un non-luogo.
Ibernate da quell'atto magico che è la Fotografia, che è memoria di ciò
che non esiste più.
E una profonda nostalgia mi assale.
Che splendida parola che è nostalgia – forse una tra le più
belle.
Da νόστος (nostos), il ritorno e
άλγος (algos), il dolore: ovvero, letteralmente il dolore del ritorno (o
meglio il dolore per non poter tornare indietro nel tempo e/o nello spazio ).
Che poi, pur derivato dal greco come molti termini scientifici, era
sconosciuto al mondo greco. È solamente nel XVII secolo che questo termine
entra nel vocabolario europeo, per opera di uno studente di medicina alsaziano
dell'Università di Basilea, Johannes Hofer, il quale, constatando le sofferenze
dei mercenari svizzeri al servizio del Re di Francia Luigi XIV, costretti a
stare a lungo lontani dai monti e dalle vallate della loro patria, dedicò a
questo fenomeno una tesi, pubblicata a Basilea nel 1688 con il titolo
“Dissertazione medica sulla nostalgia”. Con questo termine greco di nuovo
conio, infatti, Hofer traduce nel linguaggio scientifico l'espressione francese
«mal du pays» e il termine tedesco «Heimweh» (letteralmente
dolore per la casa), ancor oggi utilizzati nelle rispettive lingue.
Bizzarre sono spesso le genealogie delle parole.
Guardo queste due vecchine, entrambe indonesiane.
Con l'identico batik legato in vita e la camicia anche in batik
floreale, occupate nella loro cucina povera, in un villaggio; le ceste di
vimini, i larghi tampi (o tampah, nyiru) di bambù intrecciato per
vagliare il riso, le padelle in rame appese al muro.
1930 l'una e 2016 l'altra. Quasi un secolo.
Eppure entrambe vive in quel luogo inesistente che si chiama nostalgia.
Ed io con loro.
Le fotografie sono per me come i tatuaggi.
Scritte con inchiostro della memoria sulla pelle delle nostre anime.
Se osservate a lungo, quelle fotografie antiche, sono come immagini
sulla superficie dell'acqua che ci invita, ingannevole, a tuffarci per
ricongiungerci ad esse. Sapendo però che sarà sempre impossibile, e della
parola nostalgia proveremo più il dolore che non il ritorno.
Del resto Gibran lo scriveva in uno dei suoi aforismi più belli.
tra la sabbia e la spuma,
l'alta marea cancellerà le mie orme,
e il vento soffierà via la spuma.
Ma il mare e la spiaggia resteranno.
Per sempre.”
Sì, per sempre.
Come quelle due nonnine intrappolate nella loro cucina, nei loro atti
consueti, nei loro abiti lisi. Per sempre.
Loro sono il mare e la spiaggia.
Noi passeremo. Dimenticheremo e saremo dimenticati.
Oppure vivremo nei tatuaggi dei ricordi di qualcuno.
Però, di certo, quei tempi passati non torneranno mai più.
Continuerò a guardare con avidità e dolore tutte le fotografie antiche
di persone e luoghi che non conosco. Vivendo le loro vite. Tentando di
spingermi a forza nelle loro esistenze per prolungare la mia indietro nel
tempo.
Chissà se ci sarà mai qualcuno in grado di capire quanto io ami quelle
fotografie antiche.
L'enorme importanza che hanno per me. Per la mia vita incompleta.
Una costruzione, o una narrazione come piace dire tanto oggi,
che si muove a ritroso.
E se ancora mi domanderanno perché, perché questo legame vischioso con
quelle immagini andate, io risponderò con i versi di Iliya Dahir Abu Madi,
poeta libanese dei primi del Novecento.
e rivolgila ai fiori del giardino,
e dimentica gli scorpioni
quando guardi le stelle.”
(Iliya Dahir Abu Madi, da “L'Amore”)
Kampung Pasirdoton, Cidahu. Sukabumi, Indonesia, 2016 |
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