Mousumi


Torpignattara, Rome, 17 novembre 2023


Se Mousumi avesse dovuto trovare una metafora per descrivere la sua esistenza avrebbe, di certo, scelto quella di un passerotto con le ali appiccicate al corpo.

Intendiamoci, non che fosse una donna triste ma sentiva che la felicità non le apparteneva.

Dopo il matrimonio combinato fu costretta ad abbandonare la sua famiglia a Comilla per venire a vivere a Roma, seguendo suo marito Kamal.

E dire che aveva appena iniziato ad andare all'università.

Questo sarà uno dei suoi rimpianti.

A volte pensava che, quando le chiedevano che studi aveva fatto, fosse stato meglio non nominare del tutto l'università piuttosto che dire di averla frequentata solo per un anno. Almeno non era il risultato di una sua scelta – se questa può essere una scusa o valere da sollievo morale.

Suo marito non era una persona sgradevole; diciamo che il loro era un rapporto minimale, molto concreto. Anaffettivo.

Fondato su ciò che lei doveva fare in casa e fuori casa.

Negli anni lui si era indurito perché non riuscivano ad avere figli. Mousumi aveva anche fatto le analisi per appurare se fosse sterile ma l'esito fu negativo. Finito lì.

Il marito non le aveva fatte. Sia mai che un uomo possa essere sterile!

Era la volontà di Dio.

E comunque era più colpa di lei, se proprio andava trovato un colpevole.

Almeno queste erano le dicerie in Bangladesh, presso la famiglia di lui.

Con il passare del tempo anche a Mousumi sembrava di aver perso la sua capacità di emozionarsi.

O meglio, tutte le differenti emozioni che provava ogni giorno – diverse per colore e intensità – erano lo spazio vuoto tra le caselle esatte della sua routine quotidiana: i silenzi tra un biriani e un mal di denti.

La pioggia ancora le procurava piacere. Fin da bambina.

Quando arrivava la stagione dei monsoni, nel suo paese, trascorreva le ore alla finestra di casa ad osservare incantata la pioggia irruenta. E se le capitava di essere in strada non apriva l'ombrello.

Amava il cielo e la pioggia era l'amore che esso riversava su di lei. Quando si inzuppava si sentiva connessa al cielo.

La pioggia cadeva, lei ascendeva.

Ovviamente dopo il matrimonio non poteva più giocare come quando era una bambina, o camminare a fianco a lui senza aprire l'ombrello.

“Vuoi che ci guardano tutti? E poi con gli abiti bagnati ti si vedono le forme del corpo.”

La sgridò la prima volta. Non ce ne fu una seconda.

Anche la pioggia divenne uno spettacolo da godere attraverso una casella. Silenziosamente.

Il passerrotto zompetta ma non vola.

“Dopo il matrimonio diventerai subito una donna!”

Le disse la madre la notte prima di andare in sposa.

“Non pensare al fatto che non lo conosci! Neanche io conoscevo tuo padre e hai visto quanti anni siamo stati insieme e quanti bambini!”

“Si, Ma, però in Italia ho letto che non funziona così. Prima si sta insieme e poi, se ci si innamora, ci si sposa.”

“Eshhh! Tu mica sei italiana! E poi sai quanti divorziano laggiù! Sai come si dice: prima ci si sposa poi si ha una vita intera davanti per imparare ad amare il tuo sposo.”

Mousumi non era molto convinta ma che poteva fare?

Il matrimonio la rendeva una donna adulta piena di responsabilità. Vorrà dire che invece di studiare sui libri avrebbe studiato tra le mura domestiche: oggetto dello studio, quell'uomo misterioso con cui da domani avrebbe condiviso tutto. Sì, proprio tutto. Ma a questo era meglio non pensare sennò le veniva da vomitare.

Del resto, lo lesse su un cartello fatto dalle studentesse della Scuola di Lingua Italiana dove andava, a Torpignattara.

“Se con il matrimonio arrivano le responsabilità è con il primo figlio che tutto cambia.”

Lei era ancora nella prima fase e forse ci sarebbe rimasta per sempre.

Infatti evitava di andare alle tante feste che coloravano il quartiere perché non le piaceva essere bombardata di domande morbose da parte delle amiche sul fatto che non evesse ancora figli.

Anche se, ovviamente, le invidiava le sue compagne della Scuola di Italiano che con una mano scrivevano e con l'altra dondolavano il passeggino.

Kamal a volte la portava a mangiare al McDonald's e lei rimaneva con il volto verso il vetro ad osservare tutte le persone che camminavano in strada. Come era diversa Roma dalla sua città. Non aveva mai visto tanti colori diversi che masticavano parole incomprensibili.

Le sembrava di osservare un acquario.

Non era di una bellezza folgorante ma aveva il viso carino. Si piaceva. 

Del resto quando camminava in strada si sentiva addosso gli occhi maschili dei suoi connazionali. La mettevano a disagio, spesso erano animaleschi. Però il burqa no, su questo si era imposta con suo marito, anche se andava molto di moda adesso tra le bhabi* del quartiere. Anzi, le sembrava che lo portassero più qui in Italia che in Bangladesh.

Non è che si può acconsentire a tutto e in questo Kamal era apprezzabile. Prima di imporle una cosa le chiedeva cose ne pensasse. Il più delle volte non gli faceva cambiare idea ma su questo fu tollerante.

Niente abiti occidentali, però. Questo fu l'imprescindibile compromesso.

E se piove apri l'ombrello!

Per lo studio della lingua italiana fu più facile. Lui lavorava e aveva compreso da solo l'importanza di non renderla dipendente – in caso di urgenze – da altri che non fossero lui. E poi ormai erano molte le donne che frequentavano questi corsi.

“Ma prima non era così!” 

Le disse un giorno Ruby, una sua amica.

“Quando arrivai io a Roma erano pochissime le donne che avevano il permesso di andare a scuola. Ci sono voluti anni prima di far cambiare mentalità ai nostri uomini. Una donna ignorante è una donna sottomessa. Adesso lo siamo un po' di meno.”

Esclamò sorridendo Ruby. 

Peccato che quella parola, sottomissione, è sempre stata legata al concetto di amore. Indipendenza e ribellione sono pericolosi. Sono come macchie di petrolio sulle ali. E pensare che il Bangladesh è nato proprio dalla ribellione. Ma mai ai valori consolidati di una comunità, della famiglia, della religione. Si va all'Inferno.

Meglio convivere con il proprio piccolo inferno domestico che bruciare in quello descritto nei versi del Corano.

Meglio staccara la spina alle emozioni e regalare sorrisi ai proprio genitori durante le videochiamate giornaliere.

Alla fine, lei era una donna fortunata. A Londra non se la passavano più molto bene, non era come un tempo. L'epoca d'oro della migrazione. Adesso i bangladesi che arrivavano a Londra dall'Italia venivano accolti più con le spine che con le rose. 

Che assurdità il razzismo all'interno della stessa gente, pensava.

Piccola Mousumi. Un'ombra che cammina in mezzo a centinaia di sconosciuti che la sfiorano senza il minimo interesse sui suoi sentimenti, la sua piccola storia. Come se le goccie di pioggia non la toccassero, protetta da uno scudo invisibile. Tutto intorno a lei bagnato e lei miracolasamente – e tristemente – asciutta.

Quali erano allora le sue famose responsabilità?

Solamente quelle di accudire il marito come un bambinone cresciuto?

Tenere la casa in ordine? Cucinare i suoi piatti preferiti e mangiare dopo che lui ha finito? Saper scegliere i manghi più saporiti e caricarsi sacche di riso da cinque chili per tre rampe di scale?

Anche le sue amiche che trascorrevano ore per farsi belle, agghindate come ad un matrimonio Bollywoddiano con i lampadari alle orecchie e collane di finto oro per delle feste in cui non si faceva altro che mangiare e scattarsi selfie. 

Non si rendevano conto che gli sguardi che attiravano per strada non erano tutti di meraviglia e ammirazione? Se neanche sanno come ti chiami e che cosa simbolizzano i colori verde e rosso della tua sari, che orgoglio è mai questo? 

Proprio non le andava di fare la bella putul* in vetrina per la curiosità esotica degli abitanti del quartiere. Meglio allora passare inosservata. Una delle tante. Anzi, nessuna delle tante.

Ecco che le tornava in mente il passerotto con le ali appiccicate al corpo. 

Perfettamente dis-integrata nella sua solitudine esotica.

E se qualcuno le chiedeva che studi avesse fatto rispondeva sorridente di aver finito il college.

Che non ha avuto ancora figli ma questa è la volontà di Dio.

Che è importante saper parlare italiano così potrò dire all'ospedale che non voglio un ginecologo uomo.

Che il velo è una mia scelta infatti non indosso il burqa, anche se a Comilla portavo solamente l'orna sulla testa.

Che se potessi scegliere tra i miei desideri vorrei ancora una volta salire sul tetto del condominio e fare le piroette sotto la pioggia torrenziale.

Che mio marito in fondo è un bravo uomo, non mi è andata poi così male anche se non parliamo mai.

Che vorrei un pomeriggio sedermi con una signora italiana che non conosco sulla panchina del parco e mangiare un bel gelato con lei.

Che sono stanca di essere un fagotto in salwar kamiz di luoghi comuni.

E che siamo sempre più intelligenti di quello che la gente pensa.

Forse il vero senso delle parole di mia madre è che noi abbiamo tutta la vita davanti per imparare ad innamorarci di noi stesse. 

Anche se quell'amore è lo spazio vuoto tra le caselle della buona moglie e della buona madre.

O è la matra, la linea orizzontale da cui pendono i belllisimi grafemi della nostra lingua.




*Bhabi, cognata ma anche nomignolo affettivo che si usa tra le amiche bangladesi.

*Putul, piccola bambola tradizionale.




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