Manasa Devi |
Il Bangladesh ha una cultura millenaria che non è facile riassumere in poche righe. Ne ho fatto esperienza in questi mesi, durante le mie talk con la mostra delle fotografie fatte a Dhaka, in cui provavo a raccontare la storia di questo paese.
Anche se la sua identità nazionale si è formata relativamente da poco,
nel dicembre del 1971, con
l'indipendenza dal Pakistan, la sua storia ha radici antichissime, fin da quando
quel territorio – che ora noi conosciamo come Bengala – era chiamato Vanga,
antica parola che vuol dire confine, argine. Agli inizi dei
secoli, le popolazione Aryane dominavano e combattevano contro le popolazioni
di Vanga (come viene narrato anche nel Ramayana); Sasanka fu il primo
leggendario re che dominò queste terre.
A partire dal 6° secolo, per oltre seicento anni, si alternarono i
regni induisti e buddhisti: in tutta l'epoca brahmanica il sistema della
caste regolava l'intera società. Ma già nei primi secoli, da tempo
immemorabile, vi è traccia dell'usanza delle donne di segnare la base dei
capelli con il vermiglio, sindor, che diventerà il segno delle donne
induiste sposate, e un punto rosso tra gli occhi, mentre i capelli venivano
trattati con olio di sesamo o con il succo del frutto chiamato karanja,
e per rendere le labbra rosse usavano masticare semi di betel.
A quei tempi, per le donne dell'antico Bengala, il marito era il sole
attorno al quale girava la loro intera esistenza, e alla sua morte potevano
venire bruciate con il cadavere del marito oppure la vedovanza era fatta di
celibato, austerità e ricordo continuo del defunto, tanto che in alcune
epigrafi reali si legge che certi fiumi, come il Lauhitya, erano irrorati dalle
lacrime delle donne a cui era stato ucciso il marito.
Nel 1204 iniziò il dominio mussulmano nel nord dell'India con Muhammad
Ghori. La seconda era del Bengala, quella dei mercanti arabi, dei mistici sufi,
dei sultani e degli imperatori Mughul, fino al 1757, quando divenne una colonia
delle Compagnie delle Indie Orientali con gli inglesi, con la morte in una
piccola battaglia in un frutteto di mango nel villaggio di Palashi dell'ultimo
principe Mughul, Siraj-ud-Daula.
Ci furono molte conversioni all'Islam in questo lungo arco di tempo,
anche se molte erano spinte più che altro dall'insofferenza verso il sistema
della caste induiste.
Però fu anche il periodo d'oro della letteratura, con il Mahabharata e
il Ramayana tradotti per la prima volta in bengali dal sanscrito da Krttivas e
da Kashiram Das.
Mi fermo qui, perché la storia moderna è molto più nota.
Però ritengo fondamentale cercare di sapere anche parte della storia
antica perché è il blocco di marmo su cui i secoli e gli anni recenti cesellano
la forma di ciò che accade nel presente.
Le tradizioni sono tali proprio perché sopravvivono da tempi remoti e
spesso hanno significati che non si comprendono più.
Questo vale non solo per le usanze, come masticare il betel o segnare
in rosso la base dei capelli, ma anche per le arti, la musica.
Proprio studiando le diverse forme di musica che ci sono in Bangladesh
ho trovato qualcosa di molto particolare che vi voglio raccontare.
A proposito della musica folk.
La musica folk bengali risale al 9° secolo, con le celebri Charya
songs.
I maggiori generi di musica folk sono il bathiali, baul, bhawaiya,
gambhira e jhumur.
Il genere baul è di certo il più famoso, grazie anche a Tagore
che compose oltre trecento canzoni baul, e al suo più celebre
compositore e poeta: Lalon Shah da Kusthia, vissuto nel 1800. Una musica
basilare, suonata con strumenti poveri come l'ektara, strumento ad una
corda, il tamburo dugi, un flauto di bambù chiamato bashi e un
semplice movimento del corpo come danza.
Il bathiali è il genere di canzoni dei barcaioli, cantato nelle
ore trascorse attraversando i fiumi. Il bhawaiya è caratteristico delle
alte e aride terre della regione del Rangpur, mentre il gambhira nella
regione del Rajshahi: il termine gambhira significa Lord Shiva,
anche se ormai ha perso il suo iniziale significato di canto devozionale verso
Shiva.
E poi c'è il genere jhapan che appartiene alla comunità degli
incantatori di serpenti e che rappresenta un importante filone etno-musicale
del Bengala.
Veramente molto interessante.
Rimanda ad una epoca in cui tutto il vasto territorio del Bengala era
infestato dai serpenti velenosi e tribù nomadi di cacciatori di serpenti si
muovevano sulle barche per catturarli e curare le persone che venivano morse, a
volte mostrando anche giochi con i serpenti.
Durante queste attività erano soliti intonare canti dedicati a Manasa
Devi, la Dea dei Serpenti: questo è il jhapan, come l'ho trovato descritto in
un libro di storia del Bangladesh che comprai a Dhaka.
Da allora ho fatto una ricerca e ho scovato un bell'articolo scritto da
Lubna Marium, una danzatrice, attivista e ricercatrice culturale bangladese, la
quale descrive molto bene la storia di questo tipo di musica popolare.
Attingo al suo articolo.
“In Bangladesh, dopo il caldo torrido del grishsho,
o estate, arrivano i monsoni e con essi arrivano tuoni, fulmini e piogge
torrenziali. Ma, nelle zone rurali, con l'acquazzone, arriva la minaccia dei
serpenti che spargono un velo di paura. Così, in tutta la campagna, tra le
comunità emarginate, siano esse musulmane o indù, i capifamiglia organizzano
rituali performativi per placare la potente dea dei serpenti, Manasa Devi.
Secondo la leggenda, è la figlia nata dalla mente di Shiva, che lo sfortunato
mercante bramino Chand Saudagar si rifiutò di adorare. Manasa si vendicò
uccidendo il figlio più giovane di Chand, Lokkhindor. Iniziò così l'epica
battaglia tra la fresca sposa di Lokkhindor, Behula, e la potente Dea Serpente.
Behula condusse risolutamente il corpo del marito morto con una zattera sul
fiume al grande dio Shiva, superando gli ostacoli in sette “ghats”, o moli, per
costringere finalmente Manasa a restituire la vita a Lokkhindor.” (Lubna Marium)
Questa leggenda viene ancora oggi rappresentata ogni anno, sui fiumi del Tangail, durante l'ultimo giorno del mese di Srabon – Srabon Shongkranti – con delle barche colorate e i vari attori vestiti ad interpretare le parti di Baula, Lokkhindor, Manasa. I diversi gruppi competono con le loro barche variopinte fermandosi ad ogni “ghat”, come il viaggio di Baula, culminando la rappresentazione con il jiyoni, “riportare indietro dal regno dei morti”, ovvero l'ultimo atto: far rivivere lo sfortunato Lokkhindor.
Conosciute come “Shone Dala”, l'Offerta di Srabon, queste esibizioni
sono in effetti efficaci rituali eseguiti contro un manot, ovvero
un pegno, da un capofamiglia per placare Manasa Devi nella speranza di ottenere
da lei dei vantaggi, sia per la buona sorte della famiglia, sia per superare
altri ostacoli minori. Gli artisti, sebbene popolari bardi e attori del
villaggio, sono tutti anche dei guaritori religiosi, “ojha”, venerati per la
loro capacità di curare malattie minori con la loro ricchezza di conoscenze
sulle erbe e sulle cure naturali. Ogni esibizione inizia con l'“ojha” che offre
l'adorazione a Manasa e con la pronuncia dei mantra.
Nell'articolo viene sottolineato – e qui sta la parte per me molto interessante – come, con sorpresa, tutti gli attori di questo evento, l'ojha, il capofamiglia, gli afflitti e gli spettatori, siano musulmani, a testimonianza delle pratiche di assimilazione e pluralismo del Bangladesh rurale, soprattutto tra gli emarginati.
“La tradizione di questa pratica assimilativa risale a molto tempo fa.
Manasa è fondamentalmente la dea della fertilità femminile primordiale,
decisamente pre-ariana, che i bramini si rifiutavano di riconoscere. Il fatto
che sia sopravvissuta, non solo all'assalto ariano, ma anche a quello del
buddismo, dell'Islam e del cristianesimo e continui a essere venerata, è una
testimonianza del potere di questa divinità femminile rurale. Non a caso, il
culto di Manasa è una pratica culturale transfrontaliera condivisa da
Bangladesh, India e Nepal, elaborando ulteriormente il potere di questa Dea.”
Scrive la ricercatrice.
Manasa viene celebrata in molte regioni con rime cantate, panchalis
(un lungo racconto che celebra la gloria di una divinità) e vratakatha
(rime e racconti cantati in occasione dell'adempimento di un voto), mutando
nome a secondo della ragione in cui viene rappresentato questo antico mito:
“Poddor Nachon” in Kushtia e Pabna; “Behular Lachari” in Tangail e Ghatail,
“Behular Bhashan” in Mymensingh. Ognuno ha il suo genere di performance, per
esempio nel Bengala occidentale è celebrato come “Jhapan”, mentre in Assam come
“Ojha-pali”.
La lunga storia di questa pratica e le ragioni storiche del culto di
Manasa all'interno della comunità mussulmana è stato ben documentato in
passato.
Nel 1917 Rai Saheb Dineshchandra Sen scrive: “I Muhammadans
(maomettani) sono adesso per lo più i rojah ovvero i medici dei morsi di
serpente nel Bengala. Recitano incantesimi e 'mantra' per la cura non solo di
coloro che vengono morsi dai serpenti, ma anche di coloro che si dice siano
posseduti dagli spiriti. Di generazione in generazione, questi rojha,
per lo più maomettani, come ho detto, sono stati praticanti di quest'arte.
Senza dubbio provenivano dalle famiglie indù e buddiste e, dopo essersi
convertiti alla fede islamica, non rinunciarono a una vocazione che era stata
fonte del loro mantenimento fin da tempi remoti”.
Così conclude il suo bell'articolo Lubna Marium: “Sono pratiche
culturali come queste che definiscono la natura plurale del Bangladesh. Ed è
questa pluralità di credenze che ci rende una nazione tollerante e liberale. È
tempo di riconoscere queste pratiche e rafforzarle.”
Anche se stiamo parlando di un culto minore, di una pratica rurale e di un genere musicale folk e poco conosciuto, credo che sia comunque utile per comprendere le dinamiche della storia.
Come è stato chiaro anche nella
recente intervista allo scrittore indonesiano Agustinus Wibowo, si evince come
la cultura e le tradizioni popolari siano fluide e non avanzino nei secoli per
compartimenti stagni.
Le compenetrazioni rendono i patrimoni culturali dei popoli e delle
nazioni più stratificati e affascinanti.
La complessità è un pregio che può risuonare, a volte, anche nel sibilo di un serpente.
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