L'Uno Assoluto


 

Vi proprongo la lattura di quattro brani.


Primo:

“Quello che invisibile, inapprensibile,
incausato, inqualificato;
vhe non ha occhi e orecchi;
piedi e mani;
che è eterno,
tutto penetrante, sottilissimo
e di infinite manifestazioni;
è Quell'immortale
che i saggi riconoscono
come il pincipio
di tutta la creazione.”

“L'occhio non riesce ad avvicinarlo,
né la voce né la mente.
Noi non lo conosciamo,
né possiamo descriverlo.
È diverso da ogni cognito
e oltre ogni incognito.
Così abbiamo imparato dagli anziani
che ci hanno instruito.”

Secondo:

“Tu sei una copia del Libro santo di Dio,
sei lo specchio della Bellezza suprema del Re.
Non è fuori di te tutto ciò ch'è nel mondo
qualunque cosa tu voglia cercala in te. Tu sei quella.
Han detto: 'Da ogni parte c'è la luce di Dio'.
Ma gridano gli uomini tutti: 'Dov'è quella luce?'.
L'ignaro guarda a ogni parte, a destra, a sinistra;
ma dice una Voce: 'Guarda soltanto, senza destra e sinistra!'”.

Terzo:

“Sappi che il mondo tutt'intorno è uno specchio,
e in ogni atomo si trovano cento soli fiammeggianti.
Se tu fendi il cuore di una sola goccia d'acqua,
ne scaturiscono cento puri oceani.
In un seme di miglio è nascosto un universo;
tutto è raccolto nel punto del presente...
Da ogni punto di tale cerchio
sono tratte forme a migliaia.
E ciascun punto, nel suo ruotare in cerchio,
è ora un cerchio, ora una circonferenza che gira.”

Quarto:

“Il nome di Dio purifica
lo specchio dell'animo umano,
fa crescere sempre più l'oceano
della beatitudine divina.
Ogni sillaba nel canto del nome
fa gustare la pienezza del nettare dell'eternità.”

Bene, i quattro brani sono tratti da autori musulmani e induisti, due per ognuna delle due religioni. Provate adesso a leggerli di nuovo e a capire quale sono quelli relativi all'Islam e quale all'Induismo.

Il primo brano sono versi tratti dai Mundaka e Kena Upanishad, il secondo sono una scelta di versi da due poesie del grande Gialal Al-Din Rumi, il terzo è una  meravigliosa poesia di Mahmud Shabestani, un poeta sufi nato e vissuto in Iran dove morì nel 1320. L'ultimo è una preghiera Gaudiya Vaishnava in sanscrito del 16° secolo di cui rimangono solo i versi di Chaitanya Mahaprabhu (1686-1534).



Mentre è facile accomunare l'Islam alle due grandi religioni monoteiste (tauhid) cristiana ed ebraica, ampiamente citate e rispettate nel Corano, si è sempre tenuto a debita distanza l'Induismo con il solco insuperabile del suo politeismo.

Eppure se si riesce a vedere oltrela caleidoscopica pletora di divinità che animano la superficie di questa antichissima religione si può prendere coscienza di una prossimità non azzardata.

Già la lattura dei versi sopra citati, senza conoscere la loro origine, credo possa far pensare. Quella confusione finale è un segno che la granitica certezza dell'incompatibilità tra le due religioni è più pregiudiziale che sostanziale.

Il Corano è sceso la prima volta al Profeta Muhammad (SAW) durante il Ramadan, nell'anno 610, mentre era in meditazione nella grotta del monte Hira, come è scritto nella prima sura – in ordine cronologico non in quello indicizaato nei capitoli del Corano – “Al-'Alaq”. La prima parola dell'angelo Gabriele fu “Iqra!”, “Leggi!”, ripetuta per tre volte, per convincere il Profeta (SAW) sconvolto ed impaurito dall'apparizione. Da allora, per ventitrè anni, egli diffuse la rivelazione coranica ai suoi discepoli e la dettò ai suoi segretari.

Va precisato che il termine “Leggi!” fu in realtà “Ascolta” perché il Profeta (SAW) era analfabeta e questo fu anche la prova della veridicità della rivelazione e del destino di prescelto poiché era impossibile per una persona analfabeta comporre dei versi di sublime bellezza, profondità e ricchezza stilistica.

La parola non poteva dunque che essere divina ed era ascoltata per poi essere condivisa.

Anche i Veda (“Sapere” in sanscrito) sono per gli induisti la Parola udita del Divino. Infatti, la letteratura religiosa  induista si divide in due categorie di diverso valore sacro: la sruti (ascolto) e la smriti (memoria).

La sruti, da sru – udirecomprende i Veda, ovvero la parola divina udita dai veggenti ai primordi dell'umanità, con i testi più antichi che risalgono al 1000 a.C. fino alle Upanishad, dell'800 a.C.

La smriti invece raccoglie la verità religiosa che entra in contatti con i maestri spiritualiche ricordano e la trasmettano per generazioni: i Sutra, i libri della Legge, i Purana, più le due opere epiche più famose, il Ramayana e il Mahabharata, di cui la Bhagavad-Gita ne è una parte.

I Veda, a differenza del Corano o la Bibbia, non sono un unico libro ma una mastodontica letteratura religiosa sorta nei secoli.



In realtà, se si seguono le letture vediche, o comunque quelle attinenti alla parola divina sruti, si comprende come anche nell'Induismo tutto quanto è riconducibile ad un'unica essenza, l'Uno Assoluto, divino e creatore che è Brahman, oltre cui tutto è nama-rupa: nomi e forme.

“Colui che uno, il saggio lo invoca sotto diversi nomi”: è uno dei versi più famosi dei Rig-Veda.

E come Creatore assoluto è impossibile descriverlo o conoscerlo con i sensi e la mente, non ha attributi.

“Allah è Unico, Allah è l'Assoluto. Non ha generato, non è stato generato e nessuno è uguale a Lui”, recita la sura “Al-Ikhlas” dedicata al monoteismo islamico.

Brahman, in sanscrito, significa forza di crescita, espansione e sviluppo ed Enigma sacro, da cui deriva Bhrami che è la divinità della Parola. L'Assoluto che al maschile diviene Brahma, il Dio creatore della Trimurti Hindu: Brahma, Vishnu e Shiva).

Questa essenza divina, che non va confusa con una delle tre divinità come rivela la radice del sanscrito, comunica direttamente con l'anima, il Sè – l'Atman – a cui il credente giunge attraverso la meditazione profonda, la ricerca del dissolvimento della propria natura imperfetta nella Perfezione divina.



È incredibile il medesimo uso della metafora del cuore come specchio che è ricorrente nella letteratura sufi, primo tra tutti il Ghazali, il massimo esponente filosofico e poetico del Sufismo che accomunava il cuore umano ad uno specchio offuscato e ossidato dalla ruggine.

Chaitanya scriveva nel 1500 il potere della pronuncia del nome di Dio (dhikir nell'Islam) per la purificazione dello specchio dell'animo umano così come Rumi, 300 anni prima, scriveva che per avere uno specchio puro bisognava contemplare dentro se stessi e, solo allora, lo specchio avrebbe ricevuto ogni forma.

È il cuore puro dell'uomo che diventa il riflesso della Bellezza del divino.

Così come nella pratica induista, solo liberandosi del desiderio e dell'egoismo ci si libera dall'ignoranza spirituale che provoca sofforenza e l'eterno ciclo della rinascita (samsara).

L'ignoranza è anche legata ai sensi che rendono l'uomo incapace di vedere la vera essenza. Anche in questo caso il concetto è comune.

Nell'Islam è simbolizzato dal “velo” dell'individualità che fa da schermo, da cortina – hijab.

La rivelazione è l'aperura del velo, e l'anima carnale (nafs) è il velo per eccellenza poiché è schiavo delle apparenze, dell'effimero, delle forme.

Per i sufi l'esistenza è un velo, e come dice il Profeta (SAW) Dio stesso si nasconde dietro settantamila veli di luce e di tenebre.

Nell'Induismo il velo delle illusioni è quello di Maya, che crea le forme reali, le ordina ma crea anche le illusioni: la potenza creativa (sakti) esplicata dal Brahman attraverso cui manifesta, in modo illusorio, il mondo fenomenico. In Occidente ne parlò il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer.

“Non sfuggirai mai al tuo 'io' (nafs) prima di averlo ucciso”, afferma Abu Sa'id ibn Abi-l-Khayr a proposito del dono di Dio che apre la porta dell'amore (mahabba) in chi crede.

Atman, che è l'anima individuale e il Sè ha nell'etimologia sanscrita AN, il respirare, e ANA, il soffio, da cui deriva Vayu, il vento.

Nafs è un termine arabo usato nel Corano per “sè”, ma è anche traducibile come “Ego” o “anima”, che deriva dalla parola nafas: respirare.

È interessante rilevare come anche il termine nafs, riferito ad “anima”, è spesso confuso con ruh che significa respiro o vento.

Atman e Nafs.



La ricerca del collegamento con il divino viene cercata dai dervisci sufi attraverso la danza circolare e ipnotica che li porta in trance, per allontanarli dal mondo fenomenico.

Non a caso anche nell'Induismo i fedeli, prima di entrare nei templi girano intorno alla struttura prima di accedere alla parte sacra, rito chiamato pradakshina, o circumambulazione esterna, che “fa partecipare il corpo a quel viaggio della coscienza, la quale, scoprendo se stessa nella molteplicità delle manifestazioni dell'essere, si reintegra a poco a poco nella chiarezza immota dell'Uno-Tutto” (Tiziana Lorenzetti). 

“Questo dio
su questa terra dai cento canti
tre volte
nella sua grandezza fece il passo”.
È scritto, a proposito di Vishnu, nei Rig-Veda.

Per ultimo voglio citare la letteratura mistica tra l'VII e IX secolo dopo Cristo.

Quella bhakti vishnuitica, che ha i suoi maggiori esponenti nei Nayanar, i “santi shivaiti” Tamil del sud dell'India e i misitici vishnuiti Alvar.

La loro fede era rivolta solamente a Dio, oltre ogni pratica o status sociale, perfino anti-casta, che all'epoca era quasi un sacrilegio.

“Ma se amano Shiva,
che nasconde nei capelli il fiume Gange,
allora qualli che siano,
luridi lebbrosi, o paria,
e perfino uccisori di vacche,
a essi va il mio omaggio,
essi sono dèi per me”.
Scrive Appar, un mistico shivaita, nel VIII dopo Cristo.

 

Ovviamente queste sono solo suggestioni.

Non è assolutamente mia intenzione accomunare l'Islam all'Induismo, non sono stupido.

Per molti l'induista sarà sempre colui che adora differenti divinità, milioni.

Non a caso per l'Induismo si parla di enoteismo, ovvero l'esaltazione della posizione suprema di qualunque divinità quando è lodata, che nell'Islam è uno dei peccati più gravi (shirk).

Ho voluto provare a far capire come, risalendo alla fonte, anche nell'Induismo più originario ed ancestrale vi è la ricerca dell'Uno Assoluto, il Creatore senza attributi che dà origine e forma a tutto, anche alle innumerevoli divinità che abitano il mondo dei cieli e della terra.



Credo che la diffidenza allontani sempre.

Ma può diventare anche un punto di forza, perché solo quando si è distanti si possono vedere meglio i lineamenti di ciò che vogliamo provare a capire.

La ricerca spiritualedell'essere umano attraversa lande diverse e compie percorsi spesso lontani miglia ma la destinazione rimane sempre la speranza di poter trovare il divino dentro il proprio cuore.


“Il mio cuore è capace di accogliere tutte le forme:
è prato ove brulica la gazzella,
monastero ove il monaco prega.
Per ogni idolo è tempio, per il pellegrino è la Caba,
è la tavola della Torah, è il libro del Corano.
Io professo la religione dell'amore:
dovunque essa conduca i viaggiatori,
là io sono pellegrino.
Perché amore è la mia religione,
mia unica fede”.
Ibn 'Arabi
(Andalusia – Siria, 1164-1240)

 

Per questo articolo sono stati fondamentali due libri:
Mariasusai Dhavamony: “La luce di Dio nell'Induismo – Preghiere, inni, canti e meditazioni degli Indù” (Edizioni Paoline, 1987)
“I Mistici dell'Islam. Antologia del sufismo” a cura di Eva de Vitray-Meyerovitch (Guanda, 1991)

Colette Poggi: “Il Sanscrito – Una lingua per il pensiero del mondo” (Mediterranee, 2014)
“Poesia dell'Islam” a cura di Gianroberto Scarcia (Sellerio Editore Palermo, 2004)
Rumi: “Poesie mistiche” a cura di Alessandro Bausani (BUR, 1998)
Tiziana Lorenzetti: “Il tempio induista. Struttura e simboli” (ISIAO, 2007)
Diego Manzi: “Incanto. Le divinà dell'India” (Le Lettere, 2019)

Comments