“Non si può toccare l'alba se non si sono percorsi i
sentieri della notte.” (Gibran)
A volte le cose accadono per caso, senza una
volontà precisa, come per gioco.
In un divertente, e molto interessante, libro
sull'importanza dell'errore nell'arte e in fotografia Erik Kessels ci
suggerisce di ripensare la nostra
immaginazione:
“Perché se saprete andare oltre gli usi
abituali o appropriati delle cose, nulla potrà più mettere freno alla vostra
creatività.”
È con questo stato mentale che ultimamente mi sono trovato a fissare alcune delle mie fotografie sullo schermo del computer, in particolare un giglio, cercando – appunto – di ripensarlo.
Fu un attimo, come un guizzo, che il dito ha
premuto la funzione di “invertire”
l'immagine, mandandola al negativo; ed ecco che il giglio davanti ai miei occhi
è diventato altro da sé, sempre se stesso ma invertendo la sua essenza di luci
e colori.
Un gioco affascinante in cui mi sono perso in
questi giorni. Sì, ribaltando il mondo: rendendo oscura la luce e inondando di
luce l'oscurità.
Questo è il negativo in fotografia, il
capovolgimento fisico dei chiaroscuri e dei colori, dove il colore cede il
posto al suo complementare, così come la luce è il guanto rovesciato delle
tenebre.
Pare che tutto sia nato sulle rive del Lago di Como, nel 1833, quando William Henry Fox Talbot portò la sua fresca sposa Constance Mundy in luna di miele in Italia, e incantato davanti la bellezza del lago e dai disegni della moglie pensò e scrisse:
“Come sarebbe affascinante se
fosse possibile fare in modo che queste immagini naturali si esprimessero da
sole e in modo duraturo, e rimanessero fissate sulla carta... e affinché l'idea
non mi sfugga ancora... ne ho preso nota con cura... insieme agli esperimenti
che ritenevo più utili alla sua realizzazione, se fosse possibile.”
La storia dell'invenzione della fotografia fu il frutto del lavoro di cinque personalità: Thomas Wedgwood in Inghilterra, Joseph Niépce e Daguerre in Francia (a cui fu riconosciuta ufficialmente l'invenzione come brevetto, sottraendo il co-merito a Niépce che nel frattempo era morto) e Fox Talbot che si dedicò allo studio del “negativo” e “positivo”, termine coniato dalla quinta anima di questa arte, Sir John Herschel, successivamente al varo ufficiale del primo dagherrotipo nel 1837 – sempre a lui è attribuito il nome “fotografia” intesa come scrittura con la luce.
Questo era il desiderio di Talbot, osservando i disegni della moglie e la bellezza incantata del paesaggio: “Come sarebbe affascinante se fosse possibile fare in modo che queste immagini naturali si esprimessero da sole e in modo duraturo...”
E così fu, per vari tentativi, perché il
problema del dagherrotipo è che non era duplicabile.
“Talbot
usava carta da lettera immersa in una soluzione diluita di cloruro di sodio
(normale sale da cucina) che asciugava e poi trattava con una soluzione più densa
di nitrato d'argento: in questo modo nei pori della carta rimaneva del cloruro
d'argento. Quindi vi appoggiava una foglia, una piuma e un ritaglio di merletto
ed esponeva il tutto alla luce del sole. La carta si anneriva, mentre la parte
coperta rimaneva bianca formando la riproduzione esatta ma invertita degli
oggetti.” (Michael Gray)
Fox Talbot. “Disegno fotogenico di una felce” (1839) |
Fox Talbot. Le figlie di Talbot. Calotipo negativo (a sinistra) realizzato da un dagherrotipo di Berard (a destra) |
Questo procedimento lo chiamò “sciagraphia” o “sciadografia” (dal greco skia – ombra, shadow, in inglese), in cui il primo disegno sulla carta trasparente poteva essere usato per produrre un secondo disegno e così via, nel quale la luce e l'ombra fossero invertite: il “positivo”, appunto – l'immagine reale.
A cui arrivò nel 1840, quando vide comparire
per la prima volta comparire l'immagine riprodotta su un foglio bianco, che
chiamò “calotipo”, da kalos,
bello in greco.
L'importanza delle parole.
Il sogno di poter scrivere e disegnare con la luce, affinché fosse duplicabile e duraturo, dovette passare per il suo contrario: l'ombra, la skia.
Dalla scrittura con le ombre si giunge al
bello, alla luce, che ci riporta, finalmente, a quello che i nostri occhi
vedono in realtà, come in una sorta di rivisitazione del Mito della Caverna di
Platone.
Ma poi è così certo anche questo?
Siamo sicuri che quello che vediamo è la realtà? O, come si dice in filosofia,
noi siamo dinnanzi al Velo di Maya che nasconde la vera essenza delle cose.
Del resto la luce delle stelle nella notte è
solo l'alone remoto di stelle morte migliaia di anni fa, e il rosso o il verde
degli oggetti che osserviamo e tocchiamo è in realtà l'unico colore dello
spettro cromatico che la superficie di quegli oggetti riflette ai nostri occhi,
e dunque è l'unico colore che non li costituisce. Tutti i colori della nostra
esistenza sono falsi, sono pure illusioni, sono segmenti dello spettro
elettromagnetico respinti dagli oggetti al nostro cervello che li rielabora.
Per questa ragione io provo un profondo ed
inquietante piacere nell'osservare queste foto-esperimento; e a voi le offro,
senza nessun commento o didascalia.
Perché esse sono non un'altra realtà o
un'allucinazione, ma la radice dell'albero che non si vede, la scrittura con le
ombre che ribalta la nostra visione.
Inoltre, cosa ben più importante per me, perché
ci ricordano ancora una volta una verità fondamentale della nostra vita: la
luce deriva e si nutre dell'oscurità così come l'oscurità fa con la luce, esse
sono complementari e indissolubili; e queste foto, così come i negativi delle nostre
vecchie fotografie dimenticati nei cassetti, ne sono la prova tangibile.
Skia e Foto, ombra e luce, sono
due lati di un unico elemento, due angolazioni di una singola realtà.
E questo vale tanto per il mondo al di fuori di noi, quanto per gli esseri umani e le loro anime.
Erik
Kessels: “Che sbaglio!” (Phaidon, 2016)
“Fox
Talbot” a cura di Michael Gray (Motta Fotografia, 1998)
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