state fatte per essere capite
sono solo stimoli,
perché l'osservatore interpreti
e prosegua il mio pensiero.”
(Mario Giacomelli)
Mario Giacomelli. “Io non ho mani che mi accarezzino il viso”, 1962 |
Questa volta vi voglio parlare di un fotografo molto particolare: Mario
Giacomelli.
Si può dire che egli faccia parte del nostro patrimonio culturale, qualcuno di cui andare fieri.
Di pochi fotografi si può dire, come di lui, che abbiano una vera e
propria poetica. Questa parola che si usava a scuola per descrivere il mondo
letterario dei grandi scrittori e poeti. Qualcosa che andava oltre il semplice
stile.
Ogni scrittore, poeta, fotografo o pittore ha il suo stile, ma non sono
molti coloro che possono vantare anche una poetica.
Mario Giacomelli nasce il 1° agosto 1925 a Senigallia.
Dopo essere rimasto orfano del padre, a nove anni, Giacomelli diventa
garzone – quattro anni dopo – presso la Tipografia Giunchedi dove resterà fino
all’arrivo della guerra. In questo modo prova ad aiutare la madre, lavandaia
presso un ospizio, costretta a mantenere i tre figli piccoli da sola.
Negli anni Cinquanta apre una tipografia tutta sua, grazie ai risparmi
dati in dono da un'anziana ospite dell'ospizio dove lavorava sua madre.
Acquistata una Bencini Comet S (CMF), nel 1953, Giacomelli capisce che
la fotografia è la sua passione. Scatta assiduamente. Ritrae tutti i suoi
parenti ed amici, e partecipa ai concorsi fotografici.
In quegli anni incontra Giuseppe Cavalli, artista e critico d’arte dal
temperamento carismatico, che lo inizia alla riflessione sulla Fotografia e
sull’Arte.
Mario Giacomelli |
Alla fine degli anni Cinquanta inizia la sua fase “reportistica” e nascono
Lourdes (1957), Scanno (1957/59), Puglia (1958, dove tornerà nel 1982), Zingari
(1958), Loreto (1959, dove ritorna nel 1995), Un uomo, una donna, un amore
(1960/61), Mattatoio (1960), Pretini (1961/63), La buona terra (1964/66).
Si appassiona alla poesia, traducendo in immagini alcuni celebri poemi.
Nel 1966 conosce Alberto Burri, con cui instaura un’amicizia profonda e
a cui dedicherà delle opere di Paesaggi dove forte è il richiamo all’Informale
e alla poetica dell’artista. L’informale, in effetti, affascina Giacomelli
tanto che, dalla fine degli anni ’50 fino agli anni ’70, crea egli stesso
centinaia di opere pittoriche.
Così leggiamo nella sua biografia:
“Nel 1986 muore la madre, e per l’artista è un trauma fortissimo che segna un mutamento nella sua produzione fotografica verso un sempre più esplicito dato autobiografico. Ormai la sua notorietà si è espansa a livello internazionale e nel mondo le sue opere sono richieste dai più prestigiosi musei d’arte, mentre la sua ricerca si fa sempre più introspettiva, intimistica e votata al Vuoto, chiuso nel suo territorio marchigiano a fotografare il paesaggio come possibile luogo di ritrovamento di sé stesso. Le serie Vita del pittore Bastari del 1992/93, gli Autoritratti (Anni ’80/90) e i muri corrosi di Per Poesie e Poesie in cerca d’autore (’90), le poesie “astratte” di Bando (’97/99), 31 Dicembre (1997), sono ormai scenari completamente costruiti da un Giacomelli che usa la fotografia come fotogrammi di un film lungo un’intera vita.
In tutto questo scorrere di una vita, Giacomelli non ha mai smesso di fotografare il paesaggio, i campi e le colline della terra intorno a Senigallia, luoghi che l’artista conosceva come la sua immagine riflessa allo specchio e da qui nascono diverse serie: Paesaggi (dal 1954/anni ’60), fotografati dal basso, nostalgici e poetici; Memorie di una realtà (1956/68), la casa colonica rettangolare in cima alla collina ripresa dal basso (a San Silvestro, frazione di Senigallia); Metamorfosi della terra, foto scattate in prevalenza sulle colline di Arcevia (comune tra Senigallia e Sassoferrato) e di Sant’Angelo (frazione di Senigallia) (dal ’55 al ’68), e a Montelago (frazione di Sassoferrato) e al Vallone (frazione di Senigallia) (dal ’60 all’’80): è il paesaggio fotografato dalla collina di fronte, il che fa sembrare che la terra sia ripresa a volo di uccello. Giacomelli inizia da qui a cercare i segni, le graffiature, e contrasta e sovraespone per aggiungere zone nere e così decontestualizzare e astrarre il paesaggio a una dimensione cosmica. Alla fine degli anni ’60, ma soprattutto negli anni ’70/80, il terreno inizia a crollare, nelle foto sono evidenti le crepe e gli slittamenti dovuti al sopraggiungere dell’agricoltura intensiva e alla fine della cura del contadino verso la terra. Poi ci sono i Paesaggi dall’alto (viaggio per Bilbao, 1975): Giacomelli è in volo verso la Spagna perché chiamato a far parte della giuria di un premio fotografico, e da qui arriva l’idea di elevarsi per guardare da un’altra prospettiva. Da qui nasce Presa di coscienza sulla natura (1976/ anni ’90), i paesaggi aerei ripresi da un aereo Piper: nell’alto contrasto delle foto di questo periodo (‘76/anni ’80) e nella focale importanza dei segni, dell’astrazione e dell’essenzializzazione delle forme, resta sempre importante per l’artista (come si evince dai suoi appunti sui provini) mantenere la materia brulicante. Negli anni ’90 i paesaggi aerei sono meno contrastati e con meno segni, più omogeneo lo spazio, più distaccato lo sguardo: l’agricoltura intensiva ha ormai modificato inesorabilmente il paesaggio.”
Muore a Sinigallia nel 2000.
Mario Giacomelli. “Serie I grandi paesaggi”, 1980\1985 |
Ultimamente ho avuto la fortuna di fare mio un piccolo libretto scritto
da Vincenzo Marzocchini, intitolato “attorno a una poesia di mario giacomelli”.
È un breve saggio sul lavoro del fotografo attraverso l'analisi di una
sua poesia, molto bella, scritta nel 1998:
“Non voglio vedere le cose
in immagini, ma
analizzare i pensieri,
non arretrare lo sguardo
di fronte la realtà
ma entrare sotto la
pelle, aggiungere realtà
a realtà, quel tempo
che è dentro l'immagine
e che appartiene solo alla
fotografia, quel tempo
che tutto modifica
ma niente distrugge.”
Questi brevi versi si sposano molto bene, specialmente nel finale, con
la celebre immagine dei pretini che danzano in cerchio sulla neve.
Che è la fotografia che ho scelto per Giacomelli.
Non so neanche quando la vidi per la prima volta, ma mi sembra perdersi
nella foschia del tempo – quasi come se fosse un'immagine atavica dell'inconscio.
Fa parte della serie dei “pretini” che Giacomelli scattò nel 1962.
Lui visse un anno in quel seminario di Sinigallia, scattando molte
immagini, alcune di nascosto, come questa ripresa dal tetto, mentre i preti
giocavano sulla neve nel cortile.
In altre fotografie i pretini fumavano le sigarette che lui gli dava di
nascosto, e fu proprio a cause di questo che venne cacciato dal seminario.
Ma ormai aveva questa serie di fotografie che lo hanno consegnato alla
storia della Fotografia.
Gran parte della bellezza di questa foto, secondo me, viene dal suo
titolo: “Io non ho mani che mi accarezzino il viso”. Titolo splendido.
Come se quel giocare fanciullo fosse la sostituzione simbolica di un
affetto e un amore che nessuna mano femminile potrà mai dare loro.
In effetti mi ha sempre affascinato notare, spiando, quanta affinità e
complicità ci fosse tra suore o preti in compagnia.
Vedere le suore ridere e scherzare tra di loro mi ha sempre fatto
pensare ad una sorta di regressione infantile.
Come se essere al di fuori dell'esistenza comune le alleggerisse del
peso della maturità.
Questi pretini, il cui forte contrasto bianco\nero tipico di
Giacomelli, diventano quasi il simbolo della gioia di vivere.
L'ultima fase della sua ricerca espressiva diventerà più cupa, dopo la
morte della madre. Cercherà nei solchi della terra brulla quelle rughe del
corpo umano che fatica e muore.
Scriverà a pochi anni dalla sua morte:
“Le mie foto vogliono illudersi di essere scritture segrete, non belle immagini,
non fatte per essere semplicemente capite, ma interpretate...
Sono un viaggiatore di sensazioni in terre sconosciute, dove tutto va
interpretato.”
Scritture segrete come i solchi sulla terra.
Ma anche la scrittura segreta e allegra, quasi una calligrafia del
cuore, dei pretini in circolo per mano. Incuranti delle sofferenze dell'amore
oltre le mura del seminario.
“...aggiungere realtà
a realtà, quel tempo
che è dentro l'immagine
e che appartiene solo alla
fotografia, quel tempo
che tutto modifica
ma niente distrugge.”
Questo intendevo all'inizio per “poetica”.
Giacomelli è un nostro vanto per lo spessore poetico che ha introdotto
nella Fotografia.
Per come ci ha parlato del tempo.
Lui si definiva un fotografo “realista”, ma i suoi scatti vanno ben
oltre la semplice realtà, ma la penetrano come i solchi di un aratro.
Anche quando sembrano essere segni grafici privi di alcun legame con la
realtà, come i pretini in circolo.
Allora bisogna tornare a quel titolo, a quella assenza di mani che
accarezzano il viso.
E la realtà riaffiora in superficie, in tutta la sua struggente
bellezza.
Grazie Giacomelli di avere reso tutti noi, con le tue fotografie, del
viaggiatore di sensazioni in terre sconosciute.
Mario Giacomelli. “Serie I grandi paesaggi”, 1980\1985 |
https://www.archiviomariogiacomelli.it/vita/
Mario Giacomelli: “Io non ho mani che mi accarezzino il viso” (Photology, 2009)
Vincenzo Marzocchini: “attorno a una poesia di mario giacomelli” (Polyorama Edizioni, 2012)
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