Le Fotografie che amo 18 – Anders Petersen

“Perché la fotografia sia buona, bisogna sempre avere un piede dentro e un piede fuori.
Il mio problema è che finisco sempre con tenere i due piedi dentro!”
(Anders Petersen)


 

Anders Petersen. “Lilly and Rose”. “Café Lehmitz”, 1968
 


Ci sono alcune fotografie che hanno una storia particolare. Non tanto per le fotografie in sé ma per il modo in cui le abbiamo conosciute.

 

Alla fine dei miei vent'anni ho scoperto Tom Waits, innamorandomi delle sue canzoni sgangherate, dolenti, alcoliche, graffiate di rock e blues. Con la sua voce che andava inabissandosi in tonalità sempre più basse e roche, disco dopo disco.

Mi comprai i suoi album, con quelle copertine a volte dipinte o in foto che mostravano quasi sempre Tom Waits stesso. Da quel capolavoro del 1978 che è “Blue Valentine” o “Nighthawks at the diner” del 1975, sempre in pose decadenti, in bettole fumose davanti ad una bottiglia di whiskey e sigarette. Poi venne “Rain Dogs”, del 1985, disco che mi affascinò già dalla copertina. Questa volta una fotografia ma che poteva benissimo essere anche un disegno a carbone, tanto era sgranato.

Una donna che si sbellica di risate abbracciando un ragazzo più assorto, o ubriaco, visto lo stile della canzoni di Waits. E non mi vergogno a dire che, per molti anni, ho pensato che quel ragazzo dal viso allungato fosse il cantante, come in tutte le cover dei suoi dischi – non mi si neghi che c'è una forte somiglianza con il suo volto da giovane.

 

Comunque sia, il tempo passa.

Io mi innamoro della Fotografia e inizio a leggere i libri e vedere le foto, come fa ognuno di noi. È così che quella immagine torna in modo prepotente. Non era Tom Waits, ma una fotografia iconica scattata da un giovane fotografo svedese: Anders Petersen.

 


Anders Petersen
Anders Petersen


  

E ora che siamo giunti quasi al termine di questa seconda serie di dieci foto, non posso non sceglierla tra le mie preferite.

Perché Petersen è tra quei pochi fotografi che hanno una totale empatia con i soggetti che ritraggono. Mi vengono in mente i nomi di Moriyama, Mary Ellen Mark, D'Agata, Raghu Rai, insomma quei fotografi di cui ho già parlato o che nomino spesso.

Forse perché ritengo questa una delle qualità essenziali per farmi amare un fotografo, e perché mi illudo di averla anche io (nel mio piccolo).

Poi ognuno la sviluppa a modo suo, in accordo con la propria sensibilità e visione del mondo.

Perciò è sempre interessante leggere le storie dietro gli artisti e le loro opere.

Petersen, a guardare le sue fotografie, viene da pensare abbia avuto un'esistenza assurda, con chissà che tipo di traumi o eccessi.

Ma il fotografo, nato a Stoccarda nel 1944, ha trascorso quasi più di metà della sua vita ad insegnare e fare workshop in giro per il mondo.

Ha studiato fotografia con Christer Strömholm in Svezia dal 1966 al 1967, studente prediletto di questo celebre autore considerato il maestro della fotografia svedese.

La sua vita prese una diversa direzione quando si trasferì a studiare ad Amburgo nel 1961. In quella città iniziò a frequentare gli ambienti borderline dei giovani ribelli, fatti di musica rock, droghe e alcol. Ma anche gli studi universitari e la nascente passione per la fotografia., a 21 anni, dopo avere visto la foto del cimitero di Montparnasse sotto la neve.

Ancora oscillava tra la voglia di diventare un pittore, un giornalista o un fotografo, poi l'incontro con il corso di fotografia di Strömholm lo indirizzarono verso il destino che tutti noi conosciamo: ovvero, quello di essere diventato uno dei più grandi Maestri della fotografia mondiale e fonte d'ispirazione per generazioni di fotografi documentaristi – D'Agata su tutti, ma lui me lo tengo per ultimo.

 

Io comprai un piccolo libro su di lui, all'inizio.

Poi mi sono regalato il monumentale libro antologico, che non a caso ha in copertina questa fotografia di Lilly e Rosen del 1968.

Sfogliando le oltre 350 pagine del libro si possono trovare raffigurati coccodrilli, prostitute, gemelli, gente che orina, pupazzi di neve, drogati, prostitute, uomini che fanno la spaccata sulla banchina della metropolitana, bambini inquietanti, pazzi e i portici d Piazza Vittorio a Roma.

Sempre tutto in quel bianco e nero denso e sporco – più nero che bianco – che lui stesso produce in camera oscura, fino ad adesso.

Non è facile scegliere una sua singola foto, ma in questo caso i motivi sono due: il primo è legato a quel vecchio amore per il disco di Tom Waits, dove l'immagine è arrivata prima della sua “conoscenza”; il secondo è che quella foto è tratta dal suo libro capolavoro, il “Cafè Lehmitz”, del 1978.

 


Anders Petersen. “Kleinchen with dock worker”. “Café Lehmitz”, 1968
Anders Petersen. “Kleinchen with dock worker”. “Café Lehmitz”, 1968

 

La prima volta Petersen ci entra nel 1967, seguendo una donna che lo accompagna in questo locale del quartiere popolare, ritrovo dei randagi della zona, prostitute, ubriachi, emarginati, operai, travestiti; una famiglia numerosa di cui lui se ne sente subito parte.

Terminati gli studi nel 1968 si trasferisce a vivere in quel bar, barattando un letto per dormire con il suo accudire i figli della ex prostituta che lo gestisce.

Ci rimane per quasi tre anni, scattando ininterrottamente, come un testimone partecipe della vita di quegli esseri scartati dalla società che trovano ragione d'essere proprio in quel locale.

“Fotografa, in un certo senso, sia la propria vita che lo stato della società, nelle tristi danze degli avventori del posto: accanto al flipper, nei baci rubati o rifiutati, nella tenera e tragica miseria dei travestiti, nella fragilità disperata di quei corpi che si svelano sotto le livide luci.”

Scrive Christian Caujolle a proposito di questo libro, uscito la prima volta nel '78 e poi ristampato in Francia e Svezia nel 1982, diventando subito un libro culto.

 

Quello che colpisce è il  suo sguardo avulso da ogni tipo possibile di giudizio o distacco.

L'empatia è totale: Petersen diventa stessa carne di quella miseria, vitalità, erotismo, dei travestiti, ubriachi, prostitute, nelle loro danze come nei baci, nelle lacrime o negli amplessi sulle panche del locale.

Quel bar diventa un rifugio dell'anima, come scrive  in modo poetico Urs Stahel nel suo bel saggio “Laughter, Love, Tears, Silence” sul fotografo svedese:

“Un luogo ruvido, ma che sembrava una casa, come un rifugio da ultima stazione, serrato contro l'abisso esterno, creatore dell'abisso interiore, l'abisso dell'io, alla fine quasi sopportabile.”

 


Anders Petersen. “Café Lehmitz”, 1968
Anders Petersen. “Café Lehmitz”, 1968

In effetti, guardando le sue fotografie, non si può non avvertire quello stesso disagio dei soggetti raffigurati. Non c'è nessun giudizio morale perché anche in lui c'è lo stesso abisso di emarginazione, di urlo vitale contro l'assenza di significato del reale che diventerà il cuore dell'Esistenzialismo nell'arte.

Non a caso, dopo quel bar, i progetti successivi dei suoi documentari dell'anima saranno una prigione, un ospizio ed un ospedale psichiatrico.

Tutti luoghi chiusi, simbolici, in cui ci vivrà per lunghi periodi, per entrare in empatia con i suoi soggetti – per capovolgere quei luoghi fisici chiusi in luoghi dell'anima (oscura) aperti verso l'obiettivo della sua macchina fotografica.

Sempre con estremo rispetto.

 

“Ander Petersen cerca i margini della società, i luoghi in cui la vita è dura, e buttata-in-faccia, senza maschera; i luoghi in cui le persone che vivono ai margini mostrano le loro ferite, dove gli emarginati trovano una casa, dove il concetto di qualsiasi visione della vita e tutto ciò che potrebbe fornire un cuscinetto contro la realtà è stato consumato, se mai sia esistito.”  (Urs Stahel)

 

È veramente questa la sensazione che si ha guardando le sue fotografie e che lo rendono inimitabile. Lui ci mostra senza nessuna distanza le persone che, vivendo ai margini, ci offrono le proprie ferite.

E lo fa – come dice lui – con entrambi i piedi dentro.

E non solo prende ma restituisce anche, perché non parte della finta e moralista borghesia che vive di apparenza, bensì della sincera e viscerale famiglia degli emarginati (dell'anima).

Così nell'aprile del 1970, con quelle oltre 300 fotografie scattate nel Cafè Lehmitz realizza una mostra, all'interno del locale stesso, proprio per quegli avventori fotografati da lui negli anni, i quali, riconoscendosi nelle foto, potevano prenderle gratuitamente. In tre giorni tutte le fotografie svaniscono, ne rimane solamente una.

Come nel concetto classico del “dono”.

Bisogna restituire in qualche modo ciò che ci è stato donato.

 

“Non sto fotografando quello che vedo quanto quello che sento. Non si tratta di registrare qualcosa, ma di affrontare l'emozione che sorge. Voglio sfuggire al sentimentalismo e alla disonestà. Voglio che il momento sia intransigente. Non ho un metodo speciale. Devi essere fortunato e cercare di vedere dov'è la luce e cosa sta per succedere prima che accada.”

 


Anders Petersen. “Café Lehmitz”, 1968
Anders Petersen. “Café Lehmitz”, 1968

 

In questo modo descrive il suo stato d'animo quando fotografa.

Parlandone in termini filosofici verrebbe da dire che la sua Fotografia è il perfetto mescolamento di Esistenzialismo e Fenomenologia.

Per fotografare qualcosa cogliendone l'anima profonda non può esserci distanziamento, bisogna esserne parte, carne della stessa carne come scriveva il filosofo Merleau-Ponty.

Non è una descrizione ma una co-esistenza.

 

“Per me, l'istante fotografico riguarda anche l'intimità con me stesso. Avvicinarsi all'esperienza della realtà e fare di più che descriverla. E cercare di essere presenti nell'esperienza. A volte è dolce; a volte prendo in mano la mia macchina fotografica e la vita ci salta dentro, come i conigli. Tutto è in gioco.”

 

Poi le sue immagini, senza dubbio, possono anche non piacere, sfocate, sporche, con tagli assurdi, lontane mille miglia dalla pulizia formale di un Cartier-Bresson, con soggetti o scene spesso ai limiti della pornografia o ai margini dell'osceno.

Ma questo è il suo insegnamento più importante, nato proprio in quella bettola di Amburgo – che sarà poi portato all'estreme conseguenze dal suo “allievo” D'Agata – ovvero che per fotografare con sincerità bisogna sospendere ogni giudizio morale, bisogna scendere e bagnarsi nella stessa oscurità.

Non esiste altra forma di empatia.

È necessario entrarci con tutti e due i piedi.

Solo così chi guarda le fotografie può veramente provare piacere in ciò che osserva.

 

Proprio come per le canzoni di Tom Waits.

  



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Anders Petersen: “Cafè Lehmitz” (Schirmer-Mosel, 2004)
“Anders Petersen” (Bokforlaget Max Strom, 2013)
“Anders Petersen” (FotoNote\Contrasto, 2004)

 


 

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