Bangladesh, febbraio 2020 |
Incontrai Duronto una ventina di anni dopo quella prima volta. In realtà andai a cercarlo.
Un pomeriggio mi ritrovai per fare delle
commissioni non lontano da Sutrapur e colsi l'occasione per fare due passi.
La Vecchia Dhaka non è solamente un nome ma
una categoria dello spirito di questa città. Il suo essere vecchia è una
condizione perenne, come quelle donne anziane il cui volto è simile alla
corteccia di un albero: impossibile dare loro un'età, superato ormai il limite
del mutamento, il ché le rende perennemente antiche.
Questa area era così cinquant'anni fa. Sarà
così tra cinquant'anni.
Qualche studente usciva fumando dal varco che
si apriva sul palazzo decadente e dipinto.
Voltai l'angolo sul lato sinistro.
La madre di Doronto non viveva più là.
Nessuno sembrava ricordarsi di loro, finché
una donna seduta a gambe larghe su di una pietra quadrata a terra, con due
sottilissime caviglie marroni oltre il bordo della gonna a fiori e i piedi
ossuti piantati nella terra, mi chiamò a
sé.
“Perché cerchi Duronto? Che ha combinato?”
Mi chiese masticando delle foglie di betel che
si passava da una guancia all'altra, i denti erano piccoli tozzetti neri
appuntiti.
“Assalamualaykum khala-amma. Niente. Lo
incontrai molti anni fa. Era ancora un bambino. Volevo sapere che fine avesse
fatto.” Risposi guardandomi intorno.
“Si è sposato. Lavora come portiere in un
palazzo a Sukrabad.”
“Bene!” Esclamai, piacevolmente sorpreso. “Sa
l'indirizzo?”
Lei torse il capo guardandomi in modo
minaccioso da sotto, come fanno certi uccelli: “Sicuro che non ha fatto niente
di male?”
“Non sono della Special Branch. Non si
preoccupi.”
In mano avevo un sacchetto di bakarkhani.
Senza pensarci troppo glielo porsi.
Lei lo aprì. Ci guardò dentro e mi disse
l'indirizzo.
“Digli che lo saluta Rokeya!”
Mi urlò dietro la vecchina.
Presi un auto-rickshaw e rimasi ad osservare
il traffico.
L'autista guidava a guizzi e balzi facendomi
dondolare nella gabbietta verde. Un tasbir e una grossa placca rotonda in
metallo con le lettere di Allah in arabo penzolavano sopra il parabrezza.
Ci volle più di un'ora: il tempo di uno
sbadiglio nelle strade congestionate di Dhaka.
Camminai a lungo per le vie di Sukrabad; ci
sarò venuto un paio di volte in tutto. Appena potevo chiedevo a qualcuno.
Era strano come non provassi nessuna emozione
in particolare. Del resto non stavo andando a trovare una vecchia cotta del
college.
Anzi, iniziavo a pensare che neanche si
sarebbe ricordato di me.
Perché poi?
Avevamo parlato per un'oretta. Aveva dieci
anni, su per giù.
Ai suoi occhi avrò avuto lo stesso valore dei
cani a cui tirava le pietre sulle rive del Buriganga.
Neanche gli avevo offerto le sigarette.
Questo pensiero mi fece sorridere.
Arrivai davanti ad una palazzina modesta che
si ergeva tozza per tre piani, dai mattoni rossi e grigi. Le finestre avevano
le grate.
Il portone era aperto.
Mi affacciai.
“Assalamualaykum...? C'è nessuno?”
C'era una brandina con un lenzuolo a fiori
scuri poggiata ad un muro sotto il vano delle scale che portavano al primo
piano.
Una bambina vi era seduta sopra disegnando su
un foglio bianco con un piccolo televisore acceso davanti al lato corto della
branda.
Mi guardò un attimo e tornò a disegnare.
Da un varco all'angolo della branda si
affacciò una donna che alzò l'orna sui capelli bagnati.
Indossava un salwar kamiz giallo e
verde. Rispose al mio saluto e mi chiese chi cercavo.
“Mi scusi, sto cercando Duronto. Mi hanno detto che lavora qui come portiere.”
Lei annuì. “Perché sta cercando mio marito?”
La guardai sorpreso, poi volsi lo sguardo
verso la bambina.
“Niente. Sono un suo vecchio amico. Passavo di
qui... Mi faceva piacere salutarlo.”
Lei ci pensò un attimo.
“E' in terrazzo ad aggiustare un'antenna. Se
vuole lo vado a chiamare. Posso sapere
il suo nome, sir?”
Io sorrisi e scossi la testa.
“Non si disturbi. Vado io.”
Feci una carezza sul capo della bambina.
“Come ti chiami?”
“Rupali.” Rispose la bambina senza distogliere
lo sguardo da un uccello dal becco enorme e le ali asimettriche che stava
creando.
Salii i gradini per tutti e tre i piani.
Alla fine c'era un'ulteriore rampa di scale
che scompariva nel bordo del soffitto.
Uscii sull'ampio terrazzo.
Un uomo di schiena si dava da fare con
un'antenna sbilenca.
Indossava una maglietta rossa e un lungi
a righe grigie e amaranto.
“Duronto...”
Lui si volse verso di me, strofinò velocemente
le mani sul lungi, lo sguardo basso.
“Assalamualaykum, sir. Cosa posso fare per
lei? Perché è salito qui sopra? Mia moglie doveva venire a chiamarmi.”
Già stava incamminandosi verso le scale ma io
lo fermai.
“No, no. Sono io che le ho detto di lasciar
stare. Volevo salire io; anzi, scusami se ti ho interrotto.”
Si fermò e mi guardò come se cercasse di
trovare un qualsiasi appiglio di familiarità nel mio volto. Anche io facevo lo
stesso: ma del bambino con l'aquilone era rimasto solo il ciuffo nero dei
capelli che copriva le sopracciglia.
Tirai fuori il pacchetto di sigarette e glielo
porsi. Lui prese una sigaretta; anche io e le accesi entrambi.
“Sicuramente non ti ricorderai di me.”
Dissi sbuffando il fumo fuori dalle labbra.
Lui mi guardò ancora e sembrò rassegnarsi.
“No. Mi dispiace.”
Andai verso il bordo del terrazzo, lui mi
seguì ed entrambi con i gomiti puntati sulla superficie liscia fissammo i
profili dei palazzi.
“Normale. È stato molti anni fa. Eri un
bambino.”
“Non capisco...” Disse Duronto, con uno
sguardo nervoso all'antenna alle sue spalle.
“Non ti porterò via tanto tempo. Volevo solo
salutarti. Ci incontrammo più di una una ventina di anni fa. Io entrai nel
piazzale davanti al dormitorio degli studenti. Tu giocavi con un aquilone. Mi
chiedesti una sigaretta, poi andammo al campo di calcio e sulle rive del
Buriganga”
Lo osservai con la coda dell'occhio.
Lui aspirava il fumo e fissava il cielo.
“Il vecchio pazzo morì qualche anno dopo.
Infarto. Secondo noi morì cantando.” Disse sorridendo.
“Allora ti ricordi?”
“Beh, sono passati tanti anni. Qualcosa ancora
mi ricordo. Come mi hai trovato?”
“Sono capitato per caso da quelle parti e ho
chiesto di te. Solo un'anziana signora ti conosceva. Anzi, ti saluta. Rokeya.”
“Altra pazza!” Sospirò lui.
“Tanto per te erano tutti pazzi.”
Lui esplose in una risata, annuendo.
“Tua madre non l'ho vista.”
“Mio padre si è ammalto e sono tornati a
Bhairab.”
“E tu ti sei sposato. Molto carina tua figlia
Rupali.”
“Si, da quattro anni. Grazie.”
Sembrava che gli dovessi cavare le parole di
bocca.
Del resto, crescendo, si mantengono i tratti
di quando eravamo bambini: si cammuffano, però rimangono, a saperli
intravedere.
“Va bene, scusa se ti ho disturbato nel tuo
lavoro. Vado adesso...”
L'uomo non si volse. Guardava le nuvole dello
stesso colore dell'asfalto sotto di noi.
“Alla fine la mia famiglia è la cosa migliore
che ho avuto nella vita. E l'ho fatta io! Con le mie mani. Mai avrei pensato di
fare qualcosa di buono...”
Tornai con i gomiti sul terrazzo, alla sua
sinistra.
“Beh, non solo te. Penso ognuno di noi non sia
in grado di prevedere cosa farà di buono o cattivo quando è ancora un bambino.”
Lui annuì.
“Io non so degli altri, parlo per me. Hai
visto dove sono cresciuto. Mi sono arrabbattato ogni giorno, senza combinare
niente. Alla fine, sembrerà stupido, ma quando guardavo quell'aquilone alzarsi
in volo mi sentivo bene. Solamente quello mi faceva stare bene. Non ho più
avuto notizie di nessuno dei bambini con cui giocavo. Neanche ci torno più in
quel posto. Aggiusto antenne, stendo i panni, smisto la posta, faccio qualche
commissione per gli inquilini. Qualsiasi problema nelle case lo risolvo e, a volte,
mi allungano una banconota. Sono idraulico, elettricista, postino, a volte pure
psicologo! Hahaha... Niente male per un teppistello, no?”
Mi disse sorridendo con le labbra arrossite
dal betel.
“Si, niente male.” Risposi senza comprendere
quale emozioni mi stavano attraversando.
“E' così strano. Non ho mai saputo più niente
delle persone di allora ma sei venuto te a cercarmi che ci vedemmo una sola
mattinata.”
Mi fece quasi arrossire.
In effetti non saprei neanche spiegare a me
stesso il perché di tutto questo.
A voler essere spietatamente sinceri sono
andato appositamente a Khalangar a cercare Duronto. Ma ora che è a fianco a me
non riesco ad interpretare ciò che provo o penso.
Non è delusione, non è eccitazione, non è
felicità.
È come una lieve malinconia.
Ma non so assolutamente il perché.
“Ce l'hai ancora l'aquilone?”
Decisi che quella doveva essere l'ultima
domanda. Tutto qui.
Mi sorrise e si voltò verso le antenne.
“Si. Un'altra follia. Forse dovrei buttarlo.”
“Magari ci giocherà tua figlia.”
“Ma va! È tutto bucato! Non volerebbe neanche
se ci soffiasse dietro il vento del monsone!”
Eravamo giunti al primo gradino delle scale
quando Duronto improvvisamente mi abbracciò forte con due pacche sullla
schiena.
Lo guardai sorpreso.
Lui mi sorrise.
“Grazie che sei passato. Fa piacere sapere che
c'è qualcuno che ci tiene a me in questo formicaio.”
Io riuscii solo a sorridere.
“Ti accompagno.” Mi disse facendomi strada
sulle scale.
Sulla porta le targhette con i soliti cognomi
di Dhaka: sembrava che in questa città ci abitasse un'unica famiglia di milioni
di parenti.
Arrivati al piano terra Rupali smise di
disegnare e ci guardò.
Duronto andò verso di lei, si chinò e la prese
in braccio con un solo movimento fluido come un orso che pesca un salmone.
“Saluta chachu*!”
La bambina alzò la mano e la mosse con gli
occhi grandi come datteri.
Varcai il portone.
Sulla soglia c'era Duronto con la figlia in
braccio e la moglie al suo fianco con i capelli neri velati dall'orna.
“Torna a trovarci quando passi di qua.”
Mi disse. Io annuì.
Anche se abitavo dalla parte opposta di Dhaka
e non era per niente facile capitare in quella zona.
Camminai per la via che conduceva alla strada
principale.
Realizzai che io sapevo il suo nome ma non gli
avevo mai detto il mio.
Sbucato sulla strada fui destato dal trambusto
del traffico.
Era proprio un formicaio, dove ogni persona si
urtava e sfiorava senza curarsi dell'altro.
Visti dall'alto non eravamo così diversi da
quei buchi per terra in cui centinaia di formiche seguono le loro linee pronte
a riprendere il corso quando un ostacolo le intralcia.
Una forma di sopravvivenza che diventa pratica
quotidiana – non ci si fa neanche più caso. Gli uomini sono gli esseri con la
più profonda capacità di adattamento, e noi di Dhaka ne siamo l'esempio
migliore.
Alla fine essere chiamato “zio” valse tutta la
fatica che avevo fatto per ritrovare Duronto.
Potevo metterci un punto.
Sutrapur, Old Dhaka, Bangladesh, febbraio 2020 |
Capitò invece che molti anni dopo, quando ero un vecchio incapace di camminare senza il mio bastone, tornai per quelle stradine.
Come una calamita i miei piedi mi portarono
verso quel palazzo.
Sarà stata la suggestione ma ero certo che il
mio cuore malandato battesse più velocemente.
Mi affacciai nel portone.
La brandina e la televisione erano ancora lì.
“C'è nessuno?”
Andai verso il varco che si apriva ai piedi
della branda dove un tempo Rupali disegnava.
Una signora di spalle era intenta a tagliare
verdure seduta sul boti.
Appena si accorse di me quasi lanciò un urlo.
“Mi scusi, sir, non l'ho sentita entrare!”
Si alzò e si pulì le mani sul vestito.
Il suo volto era sempre lo stesso, ma la pelle
delle guance era più tirata e le labbra più rosse. Qualche capello bianco
riluceva sul capo.
“Scusi se l'ho spaventata. Non so se si
ricorda di me. Venni anni fa a cercare suo marito. Andai sul terrazzo...”
Lei mi guardava intensamente come a comporre
un disegno mentale che si era sbiadito nel tempo.
Scosse la testa con gli occhi dispiaciuti.
“Fa niente...” Le dissi reclinando il viso con
un sorriso.
“Non c'è suo marito? Sempre sul terrazzo?”
Scherzai con un sorriso.
Lei non replicò il sorriso.
“No. Mio marito è morto due anni fa. Un
attacco di cuore.”
Mi si gelò il sangue.
Maledetto cuore e maledetta questa città che
ci prende tutti così: per tumori e infarti. Ne uccide più la fatica che la
vecchiaia.
Rimasi pietrificato.
“Mi dispiace molto... Rupali?”
La donna accennò un sorriso che rivelava i
denti completamente corrosi dal betel.
“Sta a scuola.”
“Bene.”
Una buona notizia.
Improvvisamente la mia visita si era svuotata
di ogni senso. Inoltre decisi di fermarmi a quella prima amara sensazione
perché temevo che il vuoto non fosse circoscritto al momento che stavo vivendo.
Mi sentivo come un peso morto su un'esistenza
che non mi apparteneva.
Prima di andare mi cadde l'occhio su una
mensola colma di pentole e padelle da cui sbucava un angolo di carta bianca.
Chiesi alla donna cosa era. Lei si volse a
guardarlo e scosse il capo come se ne ignorasse l'esistenza.
Andò a tirarlo giù: era l'aquilone.
Duronto aveva detto la verità, ancora lo
teneva.
“Posso vederlo?” Chiesi.
Lei me lo porse.
“Suo marito giocava con questo quando lo
incontrai la prima volta: era un bambino.”
La donna annuì senza particolare interesse.
“Magari Rupali ci gioca ancora...”
Lei dondolò di nuovo il capo: “E' grande
ormai. Poi è tutto bucato. Anzi, meglio buttarlo.”
“Per favore, posso tenerlo?”
Annuì di nuovo.
Di sicuro serbava ricordi più importanti di
suo marito.
La ringraziai e la salutai uscendo.
Un vecchio con il bastone e l'aquilone bucato.
Fu così che, appena giunto sulla strada
principale, presi un auto-rickshaw e diedi un indirizzo: Sutrapur.
Ci volle un'ora e mezza per arrivare.
Chissà cosa avrà pensato l'autista guardando
questo vecchio con il bastone e un aquilone tutto rotto in mano.
Forse quello che pensava il piccolo Duronto
dell'umanità intera.
Camminai lentamente per le vie del marcato.
Ogni cosa era immutata. Come se il tempo non
scorresse mai per quelle stradine.
Anche l'antico dormitorio era ancora in piedi.
Perfino la spazzatura ai lati delle mura sembrava la stessa.
Mi fermai nel medesimo punto di quando
osservai Duronto litigare con l'aquilone. Una vita fa.
All'improvviso avvertii dei passi dietro di
me.
Mi voltai. Un ragazzino con la maglia e dei
pantaloni corti mi fissava con i capelli arruffati.
“Nonno, ce l'hai una sigaretta?”
“No.” Gli risposi.
Lui fece una smorfia stizzita e posò lo
sguardo sull'aquilone.
“Allora dammi l'aquilone!”
Disse con voce ferma.
Io glielo misi davanti per farglielo vedere.
“E' inutile. Che ci fai? È tutto bucato. Non
volerà mai...”
Lui con una mossa repentina me lo strappò
dalle mani.
“E tanto dove deve andare!”
Disse con un balzo e un sorriso di scherno
allontanandosi di corsa per la via dove abitava la famiglia di Duronto.
Scomparve dietro l'angolo corroso dal tempo
del dormitorio.
Io rimasi un tempo indeterminato a fissare
quell'angolo vuoto.
“E già... Dove deve andare...”
Afferrai bene il pomello del bastone e tornai
formica tra le formiche.
Questa storia non è mai esistita.
O forse comincia e finisce ogni giorno. Acre
come lo scarico di un bus di linea, ocra come la terra, stridula come la voce
di un vecchio pazzo che canta e leggera cone un aquilone.
*Chachu, zio.
Comments
Post a Comment