Sutrapur, Old Dhaka, Bangladesh, febbraio 2020 |
La prima volta che incontrai Duronto aveva compiuto da poco dieci anni.
Non mi dimenticherò mai quel momento. Non perché abbia segnato in modo indelebile la mia vita – niente di eccezionale; ma perché ci sono delle scene che appaiono ai nostri occhi improvvisamente, come epifanie, dove ogni elemento sta al posto giusto.
Come in una fotografia venuta bene.
Camminando per le strade polverose di
Sutrapur, nella Vecchia Dhaka, costeggiai un muro dal colore antico
indefinibile finché si aprì in un varco da cui troneggiava, in fondo, un
palazzo diroccato dalle pareti dipinte come nella festa di Holi. Un tempo sicuramente
fu un palazzo signorile e dignitoso.
Varcata la soglia comparve lui.
Un ragazzino intento a far volare un aquilone
racalcitrante di carta bianca con una coda dai pennacchi rosa.
Indossava una maglietta gialla, i pantaloni
neri della tuta con una striscia rossa di lato e dei sandali neri.
La pelle dello stesso colore delle pareti del
palazzo.
Entrai nel cortile senza che lui mi degnasse
di uno sguardo, preso nella sua epica lotta contro il vento: lo sguardo
stizzito e i muscoli appena formati del braccio guizzanti ad ogni tiro di corda.
Dinanzi a lui il rudere appesantito di un
palazzo antico, all'apparenza abbandonato da secoli se non fosse per alcuni
abiti colorati appesi ad asciugare sul balcone retto da ponteggi in legno.
Ai bordi di ogni lato spazzatura.
Mi andai a sedere sui gradini polverosi che
salivano verso la porta buia al centro del palazzo principale.
Mi accesi una sigaretta.
Dopo un paio di minuti il ragazzino mollò
l'aquilone a terra, si passò una mano sul ciuffo dei capelli neri e venne a
sedersi un gradino sotto di me.
“Ce l'hai una sigaretta?” Mi chiese con lo
sguardo obliquo.
“No.” Risposi.
Farfugliò qualche insulto con le braccia sulle
ginocchia aperte a V, le unghie dei piedi perfettamente nere alla punta come
falci di eclissi lunari.
“Come ti chiami?”
“Duronto”, mi disse con la voce modulata
sempre sul tono di sfida.
“Bel nome.” Dissi guardando i suoi capelli
nerissimi.
“Na! Fa schifo!” Rispose iniziando a muoversi
impaziante, dondolando le gambe.
“Perché non sei a scuola?”
“Non mi va...”
“Hmmm... Se non vai a scuola non andrai mai da
nessuna parte.”
Lui si volse e balzò in piedi strofinando il
dietro della tuta dalla terra rossa.
“E dove devo andare!?” Esplose in una risata
sarcastica.
Mi alzai anche io, osservando la porta scura
come la notte.
“Ci abitano qui?”
“Certo! Sembra una casa di fantasmi ma ci
vivono! Pensa che è un ostello: ci dormono gli studenti maschi che vanno
all'università.”
Rispose sempre sorridendo.
“Hmmm... E tu vivi qui?”
“Sì! Vuoi vedere il mio hotel a 5 stelle?”
Disse andando a recuperare l'aquilone da
terra.
“E' lontano?” Chiesi, scendendo due gradini.
“Naa!! Qua dietro: vieni! Però attento! La sua
bellezza potrebbe cavarti gli occhi!”
Esclamò sogghignando mentre si infilava in una
vietta adiacente all'angolo destro dell'ostello.
Appena girai l'angolo vidi una fila di piccole
casette basse color ocra sul lato sinistro del recinto e alberi che
intrecciavano le loro radici con i mattoni alla base del muro dell'ostello sul
lato opposto.
C'era del movimento, con bambini che si
lanciavano da un lato all'altro nel fondo della piccola stradina. Duronto si
era fermato davanti alla prima casupola indicando l'entrata con il braccio
destro.
“Questa è la mia reggia...” mentre con il
braccio sinistro indicava dietro un albero: “... e questa è mia madre.”
Dovetti fare un paio di passi per vedere che
dietro un tronco grigio c'era una donna piegata davanti un fornello acceso a
gas, circondata da padelle in ferro e thala* sulla cui superficie
lampeggiavano salse rosse; di fronte a lei una capanna di teli pubblicitari in
plastica e tronchi di legno puntati a piramide. Non riuscivo a capire se fosse
seduta su una pietra o no, la camicia lunga a fiori bianchi e neri cadeva a
terra fino ad arrossire il bordo. I
capelli lunghi legati a coda dietro, il volto stanco e poco amichevole.
Ci guardò un attimo poi tornò ad armeggiare
con il mestolo nel brodo rosso in cui emergevano cupole di uova sode come
relitti dopo un naufragio.
Riuscire a vedere dentro la casetta era
impossibile: era talmente scuro che, anche in pieno giorno, non si scorgeva
nessuna forma nel buio.
La porta poi era così bassa che ci entrava
giusto Duronto senza chinarsi.
Erano tutte così, cambiava solo la copertura
sui tetti che variava dai soliti poster pubblicitari in plastica a fogli di
lamiere, copertoni di autobus, legni e sacchi neri della spazzatura.
Il bambino gettò l'aquilone dentro senza
entrare e corse verso il fondo della stradina terrosa. Lo seguii senza che la
madre mi degnasse di uno sguardo.
Altre donne, sempre sullo stesso lato,
armeggiavano tra fuochi, pentole e odori intensi di peperoncino e spezie,
ognuna nel proprio angolo di cucina improvvisata tra i tronchi degli alberi;
del resto, quelle baracche in mattoni rossi erano appena sufficienti per
dormire o per ripararsi dalla pioggia.
Passai come un fantasma fino ad arrivare ad un
ampio varco tra le mura che si apriva su un largo recinto quadrato nel mezzo di
palazzi grigi e verdi.
Due porte di calcio senza rete da un'estremità
all'altra e in mezzo, tra la polvere, decine di bambini che correvano, urlando
e prendendo a calci un pallone lercio.
Le nuvole cariche di grigio arrancavano nel
cielo come enormi pachidermi stanchi lasciando cadere, per pietà, ogni tanto
qualche raggio di sole sul campetto.
Mi andai a sedere su una collinetta di mattoni
sul lato sinistro, guardando quei marmocchi che correvano come dannati tra nubi
di polvere rossa. Ad un certo punto, come dal nulla, apparve un uomo anziano
con una lunga casacca bianca sopra un lungi a righe blu e un pezzo di
stoffa nero che lo fasciava dalla spalla sinistra al fianco destro coprendogli
il petto e la pancia, il volto cotto dal sole e una barbetta caprina bianca che
gli incorniciava il mento.
Sorrideva guardando i bambini.
Oltrepassò il limite del campo di gioco e, con
le mani in alto intente ad avvitare lampadine invisibili, iniziò a cantare
allegramente, zompettando da un piede all'altro come un gallo.
“Keo mala keo toshbi gole
Tai to ki jaat bhinno bole
Jawa kingba ashar kale
Jater chinnho roy kishe...”*
“Uno lo chiama Mala e un altro Toshbi
E' quella la regione per cui le religioni
variano?
Nel tempo dell'arrivo o della partenza
Quale segni della religione tu porti?”
Cantava a squarciagola e sorrideva.
Alcuni bambini smisero di giocare e presero
delle piccole pietre scagliandole verso l'uomo.
“Are Bandhari! Stai zitto vecchio pazzo!”
L'anziano si coprì il volto continuando a
danzare e cantare, finché giunse alle sue spalle un'anziana donna con i capelli
bianchi e ispidi avvolta in un tre pezzi rosso con fiori arancio.
Tirò l'uomo per la casacca mentre inveiva
contro i bambini.
“Andate a scuola! Che Manasa* vi mordi le
orecchie!”
I bambini scoppiarono a ridere e iniziarono a
cantare in coro mentre inseguivano il pallone:
“Megher kole rod heseche
Badol geche tuti
Ha.. ha..ha..ha..haaa...
Aj amader chuti o bhai aj amader chuti...”*
“Il sole sorride dietro le nuvole
non sta più piovendo, che gioia!
Oggi è la nostra vacanza, o fratello, oggi è
la nostra vacanza...”
Buriganga. Old Dhaka. Bangladesh, febbraio 2020 |
Era una scena surreale e non sapevo scegliere
se fosse più buffa l'anziana coppia o i bambini color ocra con le voci in
sincrono.
Il sole si nascose nuovamente con le ombre
delle nubi a disegnare la terra come alpana* in bianco e nero.
Dopo una mezz'ora i bambini smisero di giocare
a pallone e uno di loro tirò fuori dalla tasca un brandello di lungi e
lo fece roteare in aria. Alcuni di loro strillarono eccitati, altri andarono a
sedersi a bordo campo.
Duronto venne verso di me con le guance e la
fronte madide di sudore e polvere.
“Andiamo! Non mi va di giocare a kanamachi*:
è noioso!”
Lo seguii divertito e, in parte, lusingato di
essere stato reclutato come suo compagno della mattinata.
“Ma chi era qull'uomo?” Gli domandai.
“Un vacchio pazzo. Non fa male a nessuno, gli
piace cantare e ballare come un tacchino.”
“Hmmm. E per fortuna non fa male a nessuno: lo
avete preso a pietre in testa!”
Lui si voltò con un sorriso che poteva
benissimo essere anche uo schiaffo: “Ma hai sentito che voce che aveva!”
E accelerò il passo proprio mentre camminavamo
davanti a sua madre. Niente. Lei continuava a girare il mestolo nel brodo.
Uscimmmo dal varco davanti al vecchio
dormitorio maschile di Khalangar.
“Dove andiamo?”
“Andiamo al fiume.”
Il fiume ovviamente era il Buriganga: la
vecchia Ganga.
L'indolente boa fangoso che attraversava Dhaka
da secoli, amante fedele di mercanti che scaricano le merci dalle barche per
rifornire lo Shyam Bazar, il cuore caldo e variopinto della Vecchia Dhaka.
Camminammo uno dietro l'altro rasenti le mura
delle botteghe per evitare le macchine, gli auto-rickshaw, i carretti carichi
di sacchi trainati da Sisifi storditi dal betel.
“Dopo mi compri il bakarkhani.*”
Mi disse senza voltarsi mentre scansava a
gomitate gli uomini con i sacchi di iuta sulla testa.
“Accha!”
La lunga scalinata scendeva verso la riva del
fiume. Alcuni cani randagi sonnecchiavano con il muso spalmato a terra. Era
difficile indovinare se fossero più vecchi quei cani o le carrette che
attraccavano di continuo sulla sponda.
Duronto andò a sedersi su una pietra quadrata,
rivolto verso il fiume.
Io rimasi in piedi alle sua spalle.
“Dammi una sigaretta.” Disse giocando con le
dita per allargare un buco della tuta sul ginocchio destro.
“No.”
Bofonchiò parole incomprensibili.
“Da dove vengono i tuoi genitori?”
“Bhairab. Perchè? Che sei della polizia?”
“Ma sei sempre così simpatico? E tuo padre?
Non l'ho visto...”
“Neanche io.” Rispose lanciando sassolini
verso il fiume. “Sta sempre al lavoro. Non so neanche che lavoro fa!”
“Non ci credo!” Dissi senza troppa
convinzione.
“Chi se ne importa...” Mi rispose con un lieve
cedimento nel tono sprezzante della voce.
Seguivamo i profili delle barche dello stesso
colore dell'acqua e i corpi piegati degli uomini che facevano la spola dalla
riva al mercato alle nostre spalle: parevano formiche con grossi chicchi di
grano sulle zampe.
“Che lavoro vorresti fare da grande?”
“Niente. Giocare a pallone. Diventare come
Messi.”
“Così potresti acquistare una bella cucina per
tua madre.” risposi sorridendo.
Duronto scagliò con più violenza un sassolino
contro un cane che dormiva sulla riva, il cane balzò ritto con un guaito e
ciondolò pigramente verso le barche attraccate a riva. Poi si alzò in piedi e,
con le mani ficcate nelle tasche della tuta, mi guardò ed esclamò: “Vado a
cercare una sigaretta. Ci si vede in giro!”
E corse su per le scale zigzagando.
Neanche feci in tempo a fare il primo gradino
che si era già perso nel formicaio colorato di venditori di ortaggi e verdure
che urlavano e si passavano monete di mano in mano.
Tornai versi Khalangar.
Entrai nel dormitorio. Il passaggio dalla luce
al buio dell'androne interno rendeva ciechi. Salii sulla scala che si
attorcigliava ai lati con una progressione verso fasci pulviscolari di luce.
Si iniziava ad intravedere i primi studenti
che attraversavano i corridoi, simili a spettri.
Uscii in un cortile in cui decine e decine di
maglie, pantaloni, lungi erano stesi al sole. Scrosci d'acqua rivelavano
la presenza di doccie improvvisate a cielo aperto. Scorgendosi dalla terrazza
si vedevano le vie rosse e grigie della strada e tutto intorno la catena
Himalayana di palazzi e palazzi e palazzi.
L'adzan risuonava dagli altoparlanti
delle moschee riempiendo il cielo di salmodie.
Non avevo fatto in tempo a comprare il bakarkhani
a Duronto.
Forse non lo avrei rivisto più nella mia vita.
CONTINUA...
*Thala, piatti fondi circolari.
*Lalon Shah.
*Manasa, la dea dei serpenti, venerata
dalla tribù nomade degli incantatori di serpenti, a cui è dedicata anche la
loro musica folk chiamata jhapan.
*Rabindranath Tagore.
*Alpana, o alpona (bengalese: আলপনা) è uno stile di arte
popolare dell'Asia meridionale, tradizionalmente praticato dalle donne, e
costituito da figure, motivi e simboli colorati dipinti su pavimenti e pareti
con vernici a base di farina di riso, in occasioni religiose.
*Kamanachi, gioco tradizionale in cui
uno dei bambini partecipanti ha gli occhi bendati da una stoffa.
*Bakarkhani, dolce croccante tipico di
Old Dhaka.
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