“La scrittura è come la scultura,
scalpelli il marmo cavando le pietre
per dare forma che delizia il cuore.”
(Stefano Romano)
“Agota Kristof”. Photo by Jean-Pierre Bailllod |
Scrivere è sempre stato un modo di curare
l'anima.
Scrivere ci aiuta a vedere le nostre ferite, a
premere un dito dentro di esse per farle sanguinare e usare quel sangue per
riempire le pagine vuote affinché quelle ferite diventino secche.
Se la scrittura, come ogni altra cosa, non
potrà mai farle scomparire, essa può in qualche modo cicatrizzarle.
Se compiuta in modo tremendamente sincero la
scrittura aiuta proprio nella misura in cui fa male, perché una volta che si è
impressa sulla carta la parola non può essere ignorata, ma è in questo la sua
capacità redentrice.
L'inchiostro porta con sé tutti gli elementi
di dolore di cui si nutre.
Ecco perché, fin da bambino, io ho sempre
voluto usare la penna con inchiostro nero, sia per disegnare che per scrivere,
perché il nero è il colore del dolore e delle tenebre, quasi che scrivere fosse
un rito sciamanico con cui estirpare dall'anima ogni fenomeno oscuro di paura,
sofferenza, rabbia.
Questo stesso blog è diventato un luogo in cui
aggrapparmi per non impazzire nel chiuso della mia stanza, senza la possibilità
di poter uscire a fotografare ed esprimermi.
Questa è stata fin della mia infanzia la
necessità più grande: esprimermi per non esplodere o impazzire, trovare una
possibilità per non essere solo con me stesso, per lungo tempo.
Che fosse il disegno, la pittura, la poesia,
la musica, la fotografia, qualsiasi cosa piuttosto che il silenzio e
l'immobilità.
“Il Sonno della Ragione Genera i Mostri” è un
famoso disegno di Francisco Goya del 1797, per me è sempre stato il sonno della
creatività.
Per questo sono affascinato e attratto da chi
fa lo stesso nelle forme di arte, in cui ritrovo quella stessa urgenza
artistica per non perdere l'equilibrio, da chi deve esprimersi per domare i
propri demoni interiori.
Questa è la ragione per cui voglio farvi conoscere una poesia che dal primo momento che ho l'ho letta si è piantata nella mia carne e non mi abbandona, perché è terribile e dolce come solo il dolore interiore può esserlo.
È l'ultima poesia della raccolta “Chiodi” –
mai titolo fu più appropriato – della scrittrice ungherese Agota Kristof, che
molti conoscono per la sua “Trilogia della città di K.”, uno dei libri più
inquietanti del Novecento, dalla lettura spesso insostenibile ma che non si dimentica
più per tutta la vita.
Per molto critici letterari le opere e la vita
degli artisti devono essere sempre separate nel giudicare le prime: non importa
chi ha scritto il libro ma va considerata solo l'opera d'arte in sé. Per altri
invece il legame è indissolubile.
Io non ho mai creduto all'astrazione idealista
del primo tipo: ogni forma d'arte è imprescindibile dalla vita di chi l'ha
creata.
I girasoli di Van Gogh non sarebbero mai stati
così gialli o i cieli pieni di corvi neri se lui non fosse stato in preda alla
follia.
Per questo motivo, fin da ragazzo, ho sempre
alternato alla lettura dei romanzi e delle poesie la lettura delle biografie di
chi li scrisse.
Agota Kristof è stata folgorata dall'amore per
la scrittura e la lettura fin da quando aveva quattro anni, ed ha subito
iniziato a scrivere e leggere da quell'età.
Cresciuta in una famiglia amorevole tutto
sembrava volgere alla normalità finché arrivo la guerra, il nazismo, e la
scelta di fuggire in segreto nel 1956 dall'Ungheria invasa dai russi, con suo
marito e sua figlia piccola, abbandonando la sua famiglia, senza una parola.
Sceglierà l'esilio nella Svizzera francese, in
cui troverà lavoro come operaia in una fabbrica di orologi e dove morirà nel
2011.
Abbandonerà anche la sua lingua, per adottare
il francese con cui comporrà le sue ultime poesie; e questo è un altro tema
tipico delle analisi psicoanalitiche sulla vita degli scrittori.
Io ho letto molte poesie nella mia vita, ma è
difficile trovarne di così straziato e intrise di solitudine; forse solamente
le poesie di Samuel Beckett – altro scrittore che non a caso scelse di scrivere
in una lingua diversa dalla sua – fanno così male come i “chiodi” della
Kristof.
Ecco, lei scrive per sputare via i demoni,
perché non ha altro modo per combattere la solitudine ed il dolore.
“Piango tanto che in seguito non riuscirò a
piangere quasi mai più, come se avessi già pianto abbastanza per il resto della
mia vita.”, scriverà raccontando il dolore per la sua
fuga dalla sua terra e dalla famiglia.
Ha esaurito le lacrime, non le ferite: quelle
non spariscono mai.
Per fortuna ci sono le parole, scarne,
essenziali, dure come pietre, ma a cui è possibile ancora appigliarsi per non
cadere nel vuoto sotto di noi.
Con un gesto in cui è racchiusa tutta l'importanza
dei dettagli, che sono – per me – il segreto della scrittura perfetta:
sistemare gli occhiali.
Non è solo una poesia dal valore letterario,
ma è una lettera struggente di resistenza alle nostre pene.
Perché, anche se in un'intervista, a chi le
chiedeva se nella scrittura fosse possibile vedere una luce in fondo al tunnel,
la Kristof rispose “assolutamente no” – lo stesso che disse il fotografo
Antoine D'Agata sul suo lavoro, ma questo lo vedremo una prossima volta – è
anche vero che lei è rimasta fino all'ultimo su quel tavolo, a fumare e
riempire le pagine vuote.
Con inchiostro nero.
“Non morire”
Non morire
non ancora
troppo presto il coltello
il veleno, troppo presto
Mi amo ancora
Amo le mie mani che fumano
che scrivono
Che tengono la sigaretta
La penna
Il bicchiere
Amo le mie mani che tremano
che puliscono nonostante tutto
che si muovono.
Le unghie vi crescono ancora
le mie mani
rimettono a posto gli occhiali
affinché io scriva.
“Agota Kristof”. Photo by Jean-Pierre Bailllod |
Agota
Kristof: “Chiodi - Poesie” (Casagrande, 2018)
Agota
Kristof: “Trilogia della città di K.” (Einaudi, 2000)
Agota
Kristof: “La vendetta” (Einaudi, 2005)
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