Evelyn de Morgan - The Angel with the Serpent, 1870-1875 |
Se c'è uno scrittore che graffia come pochi, questo è Emile Cioran,
filosofo, saggista e aforista rumeno, tra i più influenti del XX Secolo, anche
se non molto noto.
I suoi aforismi sono un distillato puro di rabbia, misantropia e
pessimismo, tanto che il suo nichilismo è spesso affiancato a quello dei grandi
pessimisti della storia del pensiero, da Schopenhauer (che era il nome che
avevo dato al mio gatto nero) a Leopardi.
Ciò che rende le raccolte dei suoi aforismi “tollerabili” è la sua
acuta ironia e la profonda cultura e intelligenza.
Mi ricordo quando, ai tempi dell'università, andai a trovare una delle
mie più care amiche in Toscana; suo padre era un insegnante e un fine
intellettuale, ed io dormii per alcune notti nella taverna al piano inferiore
dove vi era la sua libreria, proprio a fianco al letto. Fu così che presi dei
libri a caso da sfogliare, tra cui Cioran.
Sfogliando quelle pagine mi accorsi che erano raccolte di aforismi ed
io li adoro perché sono brevi, essenziali e densi di riflessioni.
Certo, appena iniziai a leggere, ricordo che ebbi la sensazione di
essere preso a schiaffi, pagina dopo pagina.
Pesanti, oscuri; nonostante ciò assolutamente intriganti.
Da allora ho collezionato le raccolte dei suoi aforismi, che portano
titoli come “L'inconveniente di essere nati”, “Sillogismi dell'amarezza”, “La
caduta nel tempo”, “Squartamento”, “Al culmine della disperazione”, e via
dicendo.
Ma non è mia intenzione, qui, elencare i suoi aforismi o analizzare la
sua scrittura.
Chi vuole può andare a cercare i suoi libri, con il suggerimento di
andarci cauti, perché se si viene risucchiati nel suo gorgo nero è difficile
venirne fuori, e comunque se ne esce come quando risaliamo a terra dopo essere
sprofondati in una pozza di fango denso.
Però uno voglio citarlo, in assoluto tra i miei preferiti.
Mole volte, in questi due anni di blog, mi è stato chiesto un consiglio
sulla scrittura o come io concepisca l'atto di scrivere.
Ovvio, non sono Dostoevskij e so bene i miei limiti; tuttavia scrivere
a volte mi da un profondo piacere, e so che a molte persone piace il mio stile.
Ecco, è di Cioran l'aforisma che per me racchiude il segreto di una
buona scrittura, dal mio personalissimo punto di vista.
Sta nella raccolta del 1973 “L'inconveniente di essere nati”. Dice:
“Magari si potesse risalire oltre il concetto, scrivere direttamente con i sensi, registrare le infinite variazioni di ciò che si tocca, fare quel che farebbe un rettile se si mettesse all'opera.” (E. Cioran)
Sublime.
Credo che non siano state poche le persone che hanno sentito queste
parole, pronunciate a mio modo quando mi veniva chiesto a proposito della mia
visione della scrittura.
Non esiste modo migliore per descrivere come bisognerebbe scrivere e
come io provo a fare.
La prima volta che lo lessi rimasi folgorato; l'idea del rettile che si
mette all'opera è perfetta.
Non c'è distanza, astrazione, idealizzazione di concetti, scrittura
mentale e fredda.
No, la scrittura che amo leggere e mettere su pagina è proprio quella
fisica di un rettile che striscia sul terreno ruvido, che urta le pietre e si
sporca di terra.
Scrivere con i sensi, registrare le infinite variazioni di ciò che si
tocca.
Per lo stesso motivo amo i colori forti e spesso strabordanti nelle
fotografie; mi dà l'idea di poter toccare ciò che vedo, di sporcarmi le mani:
mi restituisce la fisicità di ciò che ho visto e fotografato, laddove il bianco
e nero lo rende più cerebrale e distante.
Non è sempre così; il nero delle fotografie di Koudelka, Giacomelli o
Sobol è fisico e sporca le dita degli occhi. Ma il colore è più aderente
alla mia visione della realtà, dell'esistenza e
della fotografia. Così è per la scrittura.
Io ci provo, ogni volta, a scrivere con i miei sensi, tutti. Nessuno
escluso. Ed è il consiglio che da sempre a chi ama scrivere o ha appena
iniziato.
Dubitate della mente, diffidate.
Da tempo si è ribaltato l'assioma cartesiano cogito, ergo sum,
penso perciò sono, ma come hanno profondamente spiegato i filosofi della
Fenomenologia, io sono perciò penso, il mio corpo viene prima di ogni
cosa, prima anche del pensiero, se io sono al mondo è grazie ai miei sensi.
Alla mente piace giocare pulito, le piacciono gli specchi, le superfici
levigate.
Il rettile invece strascina, si sfrega sul suolo, è carne della
stessa carne di quel suolo, come direbbero quei filosofi.
Ho trovato che in questo l'Asia ha una marcia in più.
Ho iniziato a fare caso allo stile degli scrittori asiatici, sia perché
colpito da alcuni brani che leggevo sia per togliermi una curiosità che mi era
venuta pensando al modo di vita che ho visto nei paesi asiatici, di molto
diverso da quello occidentale.
Volevo appurare se l'attaccamento alla terra, alla dimensione orizzontale
dell'esistenza, tipica dei kampung, dei villaggi nell'estremo Oriente, la
fisicità, la predilezione per l'aspetto carnale piuttosto che di quello mentale
– prevalente nel nostro Occidente che si è plasmato su Platone e Cartesio –
aveva un riscontro anche nella letteratura.
In questi ultimi anni ho intensificato una ricerca sulla letteratura
asiatica, con romanzi di scrittori birmani, cambogiani, filippini, indo-malesi.
Per tentare di fare un parallelo, una comparazione con la letteratura che
meglio conosco, quella che ho studiato e amato fin da ragazzo.
Devo dire che ho avuto delle conferme alla mia intuizione.
Ovvio che non è mio intenzione annoiarvi con un'analisi classica di
letteratura comparata.
È più che altro una suggestione a cui ognuno dà il peso che vuole.
Comunque mi sono focalizzato sull'uso delle metafore nei romanzi,
soprattutto quelle relative alla aggettivazione e descrizione delle persone,
perché dei luoghi era relativamente facile. E non ho preso in considerazione la
poesie perché è un ambito in cui l'uso delle metafore è parte vitale e dunque è
più comune incontrare un largo uso creativo di metafore.
Nei romanzi è più difficile, e ci sono molti scrittori che non fanno
proprio uso di metafore, prediligendo uno stile di scrittura asciutto, ruvido –
penso ai racconti di Raymond Carver.
Partiamo da una premessa.
Non è che manchino negli scrittori occidentali esempi di metafore
legate al mondo naturale nella descrizione di personaggi, ma nella letteratura
asiatica sono predominanti e a volte bizzarri, con riferimenti a frutti,
ortaggi o animali. Mentre nella nostra letteratura reputo che le metafore siano
più, come dire, intellettuali, introspettive, o auto-referenziali alla persona
stessa o alla sua dimensione psicologica.
Mi spiego.
Dicevo, non è raro trovare anche negli scrittori occidentali un certo
tipo di metafore, prendiamo ad esempio Anton Cechov – ritengo gli scrittori
russi molto abili nell'usare le metafore.
Nella celebre raccolta di racconti “La signora col cagnolino”, in
quello intitolato “La figlia di Albione”, scrive:
“Accanto a lui stava in piedi un'alta, sottile inglese dagli occhi
convessi da gambero e dal gran naso di uccello, simile piuttosto a un uncino
che a un naso.”
Però le metafore nei suoi racconti sono sempre di altro tenore, più
usuale, di tipo intellettuale o psicologico.
Come in “La steppa”, dove scrive che “lo sguazzare dell'acqua e il
respiro rumoroso di una persona che si bagna agiscono sull'udito come una bella
musica.”
Ma veniamo a colui che è forse uno tra i più grandi scrittori di tutti
i tempi, Fyodor Dostoevskij. Allo scrittore russo gli è unanimemente riconosciuta
l'abilità nella descrizione, l'accuratezza nella scelta degli aggettivi e come
è abile nel far vedere ciò che descrive.
Prendiamo il capolavoro “Delitto e castigo”.
Come è accaduto per Cechov, anche in Dostoevskij capita di incontrare
metafore relative al mondo naturale, come quando descrive la vecchina della
bettola il cui “collo lungo e sottile” è “simile a una zampa di gallina”.
Poi è capace di usare 116 parole per descrivere il proprietario
terriero, Svidrigjlov, tra le principali figure del romanzo.
“Era un viso strano, simile quasi ad una maschera”. Questa frase è
tipica del suo stile e viene spesso citata ad esempio della sua abilità di
approfondire il lato psicologico dei suoi personaggi, scavando parola dopo
parola.
Appunto, sono accuratissime descrizioni rivolte sempre a mettere in
risalto il mondo interiore dei personaggi, o con riferimenti metaforici intellettuali,
artistici, cito la descrizione che fa il protagonista Raskòlnikov della sua
sposa: “Sapete, ha un visino sul tipo della Madonna di Raffaello.”
O come la descrizione di Alesa ne “I Fratelli Karamazov”, dove si
cesella la bontà e la nobiltà interiore del giovane:
“Alesa era allora un aitante giovanotto di diciannove anni che sprizzava salute da tutti i pori, con le guance rosse e gli occhi limpidi. Anzi, a quel tempo era proprio bello: abbastanza alto di statura, slanciato, aveva capelli castani, un volto dall’ovale regolare, sebbene un po’ allungato, grandi occhi griogioscuri spalancati e splendenti, un’espressione pensosa e serena."
L'uso delle metafore che fa Dostoevskij è iscritto nel circolo
dell'umano, come ad aggiungere tasselli visivi allo scavo interiore che fa con
le parole, come quando fa dire al protagonista delle “Memorie del sottosuolo”,
nella sua auto-descrizione, di essere “diffidente e permaloso come un gobbo o
un nano.” E laddove deve dare l'idea di una sensazione provata rimane comunque
nell'ambito psicologico:
“Un cupo pensiero mi sorse in capo e mi corse tutto il corpo con una
certa sgradita sensazione, come quando si entra in un sottosuolo umido e che
sente di rinchiuso.” (Memorie del sottosuolo”)
Il grande scrittore russo è talmente ingegnoso e abile nel raccontare i
pertugi dell'animo umano, prima di Freud che conierà il termine “inconscio”
anni dopo anche suggestionato dai romanzi di Dostoevskij, che perfino quando
descrive un vecchio orologio lo fa in termini umani e comportamentali:“In
qualche luogo al di là del tramezzo, come sotto una violenta pressione, come se
qualcuno lo stesse strangolando, un orologio cominciò a rantolare.”
Concludo questa prima parte con altri due esempi, oltre i confini russi
e diverso anche nel tempo.
Un altro grande narratore abile nelle descrizioni e James Joyce.
I suoi racconti “Gente di Dublino” del 1914 sono tra i patrimoni delle
letteratura mondiale.
Per intenderci, valga questa splendida metafora nel racconto “Un
incontro”: “Il mio corpo era come un'arpa, e le sue parole, i suoi gesti erano
come dita che scorrevano sulle corde.”
O questa nel racconto “Un caso pietoso”: “La sua vita scorreva via
senza scosse, come un racconto senza avventure”.
Il tasso intellettuale delle metafore qui raggiungi picchi altissimi.
Voglio concludere questa prima parte con uno scrittore completamente
diverso, molto più ruvido e aggressivo. Sto parlando del celebre “Viaggio al
termine della notte” dello scrittore francese Céline.
Nella sua prosa spesso visionaria, oscena e violenta, riporto questa
toccante descrizione fisica di Madame Puta:
“Mica che fosse brutta, Madame Puta, no, avrebbe potuto perfino essere carina, come tante altre, solo che lei era così prudente, così diffidente, che si arrestava ai bordi della bellezza, come ai bordi della vita, con i suoi capelli un po' troppo curati, il sorriso troppo facile e improvviso, i gesti un po' troppo rapidi o un po' troppo furtivi.”
Poche parole ma perfette.
Ultimo, ma non per valore, voglio citare uno scrittore italiano che ha
fatto della descrizione psicologica un suo pilastro tanto da dedicarvi un
intero romanzo, il bellissimo “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo.
Ecco come descrive la sua stessa vita il protagonista: “La mia vita non
sapeva fornire che una nota sola senz'alcuna variazione, abbastanza alta e che
taluni m'invidiavano, ma orribilmente tediosa.”
Mi rendo conto che è non facile affrontare questo argomento, troppo
vasto e andrebbero citati molti più autori. Ma, come ho anticipato all'inizio,
non era questo il mio intento.
La mia è più che altro una suggestione. Penso che chi legga questi
esempi sia in grado di capire cosa io voglia intendere.
E penso che nella seconda parte questo emerga in modo più prepotente.
Per adesso vi lascio a far decantare lo stile di questi maestri della
penna che sono stati anche i miei maestri, prima di volare in Asia; e lo faccio
con un ultimo dono del caro Cioran, altro aforisma tra i miei preferiti.
“La saggezza maschera le nostre piaghe:
ci insegna come sanguinare di nascosto.”
(Emile Cioran)
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