La Maestra di Campagna – Prima Parte


©Ishu Patel
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“Sii come il legno del sandalo,
che profuma la scure che lo colpisce.”
(Proverbio Thailandese)


Quando Punnee si avvicinò genuflessa verso i monaci, con la stoffa nuova per confezionare il kesa*, durante la cerimonia di Kathina*, ebbe un colpo al cuore, osservando il volto del bhikkhu* seduto davanti a lei.

Nonostante fossero trascorsi molti anni e fosse completamente calvo, non aveva dubbi, quello era un sorriso che non aveva mai dimenticato.

Scrutandolo in modo discreto, sussurrò senza farsi ascoltare dai fedeli alle sue spalle: “Luong pì*Theerapong?”

Lui le sorrise con calma mistica e dolce: “Surimedo adesso, yom* Punnee.”

La donna fu colta da profondo imbarazzo.

“Scusami, Luong pì Surimedo.”

Poi gli consegnò il suo donò è tornò frettolosamente, con il viso quasi a fissare il pavimento, verso il suo cuscino, mentre i fedeli si alternavano uno ad uno verso i monaci.

Ancora non le sembrava vero.

Andare, questa volta, al monastero Wat Ban Nong Tama nella città di Sisaket per Kathina, invece del solito monastero nel suo villaggio le aveva riservato una meravigliosa sorpresa.

Quanti anni saranno trascorsi dall'ultima volta che lo vide...?

Punnee chiuse gli occhi, mentre le dita accarezzavano la paa pan koo, la sciarpa bianca che le calava dalla spalla sulla blusa ricamata.




Punnee era nata a Moo Baan Mueangchan, un villaggio vicino Sisaket, nell'Isaan, la regione settentrionale della Thailandia che si stende dalla piana di Korat, fino alle rive del Mekong, al confine con il Laos e la Cambogia, conosciuta anche come “orecchio dell'elefante” per la sua forma.

Un villaggio agricolo e povero. Sua madre mè*Nint, andava a lavorare come cucitrice in un mercato di Sisaket, mentre suo padre, Nattawat Kongsanai, conosciuto da tutti come pìNatt, era un autista di taxi all’aeroporto Suvarnabhumi di Bangkok. Sua madre tornava a  casa giusto il fine settimana e ogni tanto la portava con lei, ma erano più le volte che si addormentava che altro. Suo padre tornava ancora meno.






Nella piccola casa di mattoni e bamboo trascorreva le giornate con la nonna, suo fratello più grande e la sorellina.

Ogni mattina, mangiato al volo un po' di riso, mentre sua nonna era china a terra davanti allo yang in pietra che arrostiva la carne, indossava la sua uniforme con la gonna blu e la blusa bianca, prendeva il suo zainetto ricavato da un sacco di iuta legato con uno spago e scalza usciva verso la strada sterrata che conduceva alla scuola – non prima di aver fatto una preghiera veloce alla casetta blu degli spiriti davanti casa, altrimenti la nonna l'avrebbe sgridata.



©Ishu Patel
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A Punnee piaceva fare quella strada, poi lo zaino non era pesante: giusto una  penna  ed il quaderno del Re, con l’immagine di Pra Bhumibol, Rama IX, ed il nove in carattere sanscrito stampato sulla copertina. Non avevano i soldi per comprare le scarpe ma almeno la scuola le donava i suoi bei quaderni.

La Ban Muang Chan Elementary School era nella città e ci impiegava una quarantina di minuti a piedi, però non le pesavano.

Perché amava camminare nel verde delle risaie, salutare le donne chine con i cappelli a cono che ci lavoravano, respirare l'aria intensa e umida dei corsi d'acqua e vedere le libellule saettare con il loro moto intermittente sulle punte delle piante.

E poi, più di ogni altra cosa, sapeva che dopo una manciata di minuti sarebbe saltato fuori lui, dalle piante alte: Theerapong, il suo compagno di classe e inseparabile amico.

Quante risate si facevano.

Le prime volte era sempre uno spavento. Lui aspettava che Punnee fosse vicina e saltava urlando sulla strada, peggio d'un fantasma!

Come era arrabbiata; anzi, la prima volta tornò indietro piangendo a casa e raccontò tutto alla nonna.

Poi ci fece l'abitudine, anzi lo aspettava sempre con il cuore che batteva.

Con i suoi calzoncini corti al ginocchio, i capelli a caschetto, e la pelle bruna coma la sua.

Quando pioveva forte lui le copriva il capo con il suo zaino fino al cancello della scuola.

A volte tornava a casa completamente ricoperta di fango che la nonna si disperava perché doveva lavare tutto ed essere pronto per la mattina seguente.


Ancora adesso, che sono trascorsi quasi trent'anni, ama percorrere quella stradina a piedi.

Sono cambiate alcune cose, ovviamente.

Già da una decina di anni ne hanno asfaltato la maggior parte, nella speranza che qualche turista giungesse fin là, ma finora non si era visto nessun farang*, ma a lei non dispiaceva neanche poi troppo: era rimasta sempre una donna semplice, senza subire il fascino dell'Occidente e della sua ricchezza.

A casa sua arrivava anche il wi-fi adesso, anche se la sua sorellina doveva salire in piedi sul tavolo con la mano verso il tetto per captare il segnale.

Aveva le scarpe, e ancora indossava un'uniforme, ma questa volta era quella color crema delle maestre: sì, perché dopo avere studiato all'università di Sisaket aveva scelto di insegnare proprio nella scuola in cui aveva trascorso la sua infanzia.

Quando fu accettata in quella scuola, sua madre le disse piena di orgoglio che il suo destino era già nel suo nome, perché Pun-nee (พรรณี) significava sia pianta che libri.






Ogni anno, al primo giorno di scuola, sua nonna le faceva ascoltare una vecchia canzone di Vongcian Phirost, in cui si esaltava il carattere nazionale della vita di una maestra di scuola di villaggio.

Punnee stava là, in piedi con la sua bella uniforme color crema e la gonna lunga oltre il ginocchio, mentre sua nonna tutta sorridente le cantava la canzone, come fosse un militare in parata.

“Dai, yai*! Ogni anno!!”

Punnee sbuffava, mentre la nonna continuava a cantare mentre le teneva i polsi per non lasciarla andare fino alla fine della canzone.

Poi usciva di casa, andava verso la casetta degli spiriti blu per eseguire il Tambunn, l’offerta all’altare in ricordo dei propri familiari. Si toglieva le scarpe e offriva due mele, tre banane, una bibita rossa, accendendo tre incensi ed una candela, all'immagine di Buddha all'interno.

Terminata la preghiera, si rimetteva le scarpe, prendeva la borsa e iniziava a camminare tra i campi di riso, il cui verde smeraldo era l'unica cosa che non era mutata nel tempo.



House of Spirits


Ma il ricordo indimenticabile, legato alla sua infanzia, fu il 5 dicembre del 1982, quando lei e Theerapong avevano appena compiuto 12 anni. Fu l'ultimo anno di scuola quello e suo padre era tornato da Bangkok già da una settimana.

Quando Punnee chiese a suo padre che regalo le avesse fatto per la fine della scuola, aveva già in cuor suo l'idea che finalmente le avesse comprato della scarpe, ma la risposta del padre fu ancora più sbalorditiva.

“Vi porto tutti a Bangkok, alla Festa del Re!”

Ancora ricorda come fosse ieri lo sguardo incredulo di sua madre, non così diverso da quello impazzito di gioia della piccola Punnee.

“Può venire anche Theerapong, po'*?”

Il padre guardò sua madre poi annuì, borbottando.

Lei corse subito a dirlo al suo amichetto, più veloce delle libellule.

Lo trascinò per una mano fino alla rive del fiume e si sederono sulle pietre.

“Ho una grande sorpresa per te! Mio padre ci porta a Bangkok per la Festa del Papà!*”, urlò Punnee con le punte dei capelli nerissimi a caschetto che quasi le coprivano gli occhi.

“Posso venire anche io?” Chiese Theerapong sbigottito.

La ragazzina annuì così forte che sembrava la testa dovesse rotolare giù da un momento all'altro.

“Wahhh! Bangkok, Krungtep Mahanakon, la Città degli Angeli! Pensavo non l'avrei mai vista in vita mia!”

Diceva il piccolo Theerapong con l'ingenuità che hanno solamente i bambini, per cui la vita è sempre un unico presente.

Lui le strinse le mani e con uno scatto repentino, come un cobra, le diede un piccolo bacino sulla guancia.

Punnee rimase pietrificata con la bocca aperta e le guance più rosse dei peperoncini di nonna.

“Grazie! È tutto merito tuo” Le disse lui senza darle il tempo di comprendere che cosa le era successo e la portata di quel gesto veloce.

Pensò a suo nonno, che era morto qualche anno fa e allenava i serpenti: “Il serpente è un animale buono, le diceva, perché il suo veleno entra così veloce che non hai il tempo neanche di capire che ormai non hai più nessuno scampo. Non è come il leone che ti terrorizza con il suo ruggito da miglia e miglia lontano. Il serpente è un assassino gentile”, le diceva con i suoi quattro denti in bocca come i tasti neri di un pianoforte.

Mentre tornava a casa, Punnee si accarezzava la guancia, senza capire perché le fosse venuto in mente il nonno in quel momento.

Poi tornò a pensare al viaggio del giorno seguente e le tornò il sorriso.

La sera mangiarono finalmente tutti insieme. La nonna per festeggiare la bella notizia aveva cucinato funghi, som tom* e kaw moo yahng*. Suo padre si addormentò per terra per come era ubriaco.


La sera del 4 tutta la famiglia si diresse verso la stazione dei treni di Sisiket.

Il treno in partenza era già affollato di persone e ad ogni stazione salivano sempre più famiglie. Quasi tutti indossavano magliette gialle* e avevano bandierine thailandesi in mano.

Punnee provava un poco di vergogna perché non aveva la maglia gialla e neanche le scarpe: lei e Theerapong avevano l'uniforme bianca della scuola perché era l'abito più elegante a disposizione, e comunque molti bambini, su quel vagone, come loro erano senza scarpe o con sandali.

Dormivano tutti uno addosso all'altro e si potevano distinguere sia i dialetti suey come quello parlato dalla famiglia di Punnee che il kmin, il dialetto khmer della provincia del Surin.

La bimba, come Theerapong, non chiuse occhio per tutta la notte, talmente era l'eccitazione per quell'incredibile avventura.

Tenevano il naso schiacciato sul finestrino del treno per riuscire a vedere quel poco che la luna concedeva loro. Nelle stazioni successive continuavano a salire sempre più persone – sembrava che il treno fosse un unico lungo vagone di giallo, che trasportasse colore invece di esseri umani.

Ci vollero otto ore di viaggio.

Theerapong, prima di arrivare alla stazione di Bangkok, con il sole che iniziava ad albeggiare tra le alture, disse a Punnee: “Chissà se il gallo canta anche a Bangkok?”

Entrambi sorrisero mentre sua madre e suo padre si svegliarono stropicciandosi gli occhi.

Il vagone era un fermento di volti in festa e odori dei cibi che molti si erano portati dietro.


Anonymous (Thailand). “Vessantara Jataka, Chapter 2: Kalinga Brahmins are Given the White Elephant”. Painting, date late 19th century.
Anonimo (Thailandia). “Vessantara Jataka, Capitolo 2: Ai Bramini Kalinga viene consegnato l'Elefante Bianco”. Dipinto, datato fine XIX secolo.


Alla stazione di Bangkok si riversò sulle banchine dei binari un fiume giallo che si muoveva compatto e fluido come il Mekong. Sua madre si raccomandò a Punnee e al suo amichetto di non allontanarsi mai da loro neanche per un istante.

Non c'era neanche bisogno che il padre li guidasse verso il parco di Sanam Luang perché l'intera città si stava dirigendo verso lo stesso luogo.

Punnee e Theerapong, per mano, guardavano incantati con il naso all'insù le guglie dorate dei templi, i palazzi alti e i canali d'acqua lungo le strade, mentre con l'altra mano stringeva la blusa di sua madre.

Ci volle quasi un'ora per arrivare al grande parco che costeggiava la strada dove, nel pomeriggio, sarebbe passata l'automobile con il Re.

Già vi era un grande dispiegamento di polizia e corpi dell'esercito a sorvegliare i bordi della strada transennata. Dall'altra lato della strada si innalzava il muro bianco del tempio.

La spianata verde di Sanam Luang era stracolma di una folla completamente vestita in giallo, quasi tutti avevano due bandierine di carta in mano: una  gialla, con  il simbolo  del Re,  l’altra coi colori della Thailandia.

Punnee e la sua famiglia si muovevano come un corpo unico tra la gente.

Alla piccola bambina scalza tutto questo sembrava il giorno più bello che avesse mai avuto nella sua breve esistenza. Non faceva altro che tirare la maglia di Theerapong da un lato ed essere tirata da lui dall'altro.

“Guarda! I danzatori di Khon!”, “Là! Quanti dolci!”

Non facevano in tempo a fermarsi davanti una delle bancarelle ai bordi del parco che già fremevano per vedere cosa vendeva quella successiva.

Insetti fritti, spille del Re, statuine del Buddha, rosari, dolci, figurine in vetro colorato, incensi...

Ad un certo punto suo padre disse alla figlia: “Luk, voltati, guarda l'elefante!”

Punnee e Theerapong si voltarono con la bocca spalancata osservando farsi largo tra la folla, placido e gigantesco, un enorme elefante dipinto di bianco con la lunga proboscide che dondolava da un lato all'altro, drappeggiato con tessuti vellutati e decorati sulla schiena e sul capo, con delle fasce colorate di giallo legate sulle lunghe zanne d'avorio e dei pennacchi bianchi vicino alle grandi orecchi. Sopra di lui, su di un baldacchino dorato c'era omino che sembrava una miniatura in confronto.

“L'elefante! L'elefante!” In due corsero verso il gigantesco animale mentre la madre gli urlava dietro di non perdersi.

Rimasero immobili ed estasiati, a pochi metri, in ammirazione dell'elefante che procedeva regale ed incurante delle urla di gioia dei bambini che lo accerchiavano.




Mangiarono noodles e som tam tutti insieme seduti sull'erba in attesa del pomeriggio.

Ormai nel grande parco era difficile trovare un centimetro libero.

Mancava ormai poco; provarono ad avvicinarsi il più possibile al lato recintato ma un muro umano di mattoni gialli si ergeva davanti a loro come una diga invalicabile.

Punnee implorò la madre di tentare di proseguire.

“Voglio vedere il Re! Voglio vedere il Re!”

“Non possiamo andare più avanti di così, non vedi che è tutto pieno!”, le rispose la madre spazientita.

“Qualsiasi cosa accada, se ci perdiamo, ci vediamo dopo alla bancarella delle statuine del Buddha”, disse il padre indicando una della bancarelle al lato opposto del parco.

Punnee e Theerapong annuirono con vigore.

Le urla della gente esplosero in un boato alla loro spalle quasi a farli cadere.

Il bambino prese con forza la mano di Punnee e la trascinò con sé.

“Il Re! Il Re!”, le urlò in viso con il suo sorriso vispo e solare.

“Ma come facciamo? Non si può passare...” rispose Punnee con la voce sconsolata guardando la parete di schiene gialle che iniziavano a premere in avanti.

Allora Theerapong ebbe un guizzo negli occhi.

“Noi siamo piccoli: passiamo sotto!” Neanche il tempo di finire la frase che già si era accovacciato a terra, Punnee lo seguì procedendo a carponi tra le gambe delle persone.

Tutti quanti erano talmente concentrati sulla strada che neanche si accorgevano dei due bambini che si facevano largo tra le gambe. Ogni tanto qualcuno li vedeva e gli urlava qualcosa, ma là sotto non riuscivano a capire nulla talmente era potente il frastuono delle voci in festa.

A  fatica riuscirono a raggiungere l'ultima fila di persone a ridosso delle grate che separavano il prato dal marciapiede. Le loro teste sbucarono tra le gambe e le grate, come in attesa della ghigliottina, mentre proprio in quel momento videro la lunga automobile bianca con il Re in piedi, con la sua uniforme militare rossa, salutare la gente in delirio.

Punnee aveva le lacrime agli occhi per la felicità, anche se l'orecchio destro era premuto sul bordo della grata in ferro e le faceva male.

Sopra le loro teste era un agitarsi perpetuo di mani e bandierine di carta.




“Stiamo vedendo il Re, veramente... Non in televisione!” Le disse Theerapong emozionato come lei.

Poco avanti a loro la macchina si fermò, tutto intorno e dietro di essa i vari corpi dell'esercito, con le uniforme rosse o bianche e i copricapi alti e largì come otri scure.

Il Re scese dalla macchina e si avvicinò alla folla in festa; immediatamente tutti quanti si inginocchiarono e le persone davanti a lui si genuflessero con la fronte a toccare le mani congiunte a terra.

Il Re accarezzava i bambini, stringeva le mani, qualche donna anziana in ginocchio estrasse un fazzoletto bianco e lo stese sul suolo davanti a lui: il Re ci salì sopra con le scarpe per un attimo e la signora anziana lo riprese stringendolo forte con entrambe le mani e lo baciò, per poi metterlo via nella blusa gialla.

Punnee e Theerapong guardavano ogni cosa come fossero al cinema.

Poi videro l'automobile allontanarsi lentamente verso Tanon Rajadamnen, la strada reale che conduceva al Wat Phra Kaew, Il Tempio del Buddha di Smeraldo in cui il Re avrebbe proseguito la sua celebrazione con i sessanta monaci.

Ma loro non l'avrebbero vista e neanche era un pensiero: il loro cuore non avrebbe retto un'altra dose di felicità. Solo allora Punnee si rese conto che, per tutto quel tempo, aveva stretto forte la mano di Theerapong.


La gente stava tornando verso il centro del parco.

I due bambini si alzarono e si pulirono le ginocchia sporche di terra. Non sapevano neanche cosa dirsi – si guardavano sorridenti con le lacrime che rigavano le gote brune.

Tornarono verso il centro del parco. Videro Nint corrergli incontro. Si inginocchiò e abbraccio forte sua figlia.

“Hai visto il Re, luk?” Le chiese mentre le sistemava i capelli dietro le orecchie.

“Sì, mè”, disse la bambina, “era bellissimo e alto”, mentre Theerapong saltava come un grillo con le mani in cielo. “Così! Così! Anzi più alto, mè...”

Nint si alzò e diede un pizzico alla guancia del bambino.

“Che sciocco che sei!” E tutti e tre esplosero in una grande risata.

La sera si concluse con i fuochi d'artificio e la medesima massa umana color del sole che tornava placida verso la stazione dei treni.

Questa volta dormirono quasi per tutta la notte.

Punnee con la testa sulla pancia di suo padre e Theerapong, seduto a fianco a lei, con il capo sul braccio di Nint.

Nascoste in mezzo ai loro corpi le loro mani saldamente strette una all'altra.


CONTINUA...





* Kesa (o kaṣāya in sanscrito, lett. “ocra” o “arancione”) è il nome giapponese della veste dei monaci buddhisti. Viene drappeggiata sotto un braccio e fissata alla spalla opposta
Kathina è la festa buddista che si svolge alla fine di Vassa, il ritiro di tre mesi della stagione delle piogge per i buddisti Theravada in Bangladesh, Cambogia, Laos, Malesia, Myanmar, Sri Lanka, India e Thailandia. La stagione durante la quale un monastero può ospitare Kathina dura un mese, a partire dalla luna piena dell'undicesimo mese del calendario lunare (solitamente ottobre).
* Un bhikkhu è un maschio ordinato nel monachesimo buddista. Monaci maschili e femminili sono membri del Sangha (comunità buddista).
Luong Pì è l'appellativo usato nei villaggi per rivolgersi ai monaci in modo informale, significa fratello monaco.
Yom è come il monaco si rivolge ai laici coetanei.
è l'appellativo per chiamare le madri.
Farang è il modo in cui i thailandesi chiamano i turisti bianchi occidentali.
Yai, yaa è il modo in cui i nipoti chiamano la nonna materna o paterna.
è l'appellativo con cui i figli chiamano il padre, luk è come ci si rivolge ai figli.
* Il 5 Dicembre è la Festa del Papà in Thailandia, perché coincide con il compleanno del Re Bhumibol, Rama IX, ed è la festa più importante del paese; mentre il 12 agosto è la Festa della Mamma poiché coincide con la nascita della Regina.
Som tom è l'insalata di papaya, tra i piatti più tipici di quell'area.
* Collo di maiale alla griglia, piatto tipico dell'Isaan.
* In Thailandia ogni giorno della settimana ha un colore specifico. Il colore del lunedì è il giallo e poiché il Re è nato di lunedì questo è diventato il suo colore e il più amato da tutto il popolo thailandese. Alla Regina, invece, è associato il celeste perché nata di venerdì, mentre alla terzogenita figlia del Re, Prateeb, è associato il viola che è il colore del sabato.

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