“Non è come un fotografo guarda al mondo che è importante. È il loro rapporto intimo con esso.” (Antoine D'Agata)
Ukhiya, Cox's Bazar, Bangladesh, 27 Febbraio 2020 |
Questa è l'ultima foto di dieci con cui ho
provato a raccontare le mie tre settimane in Bangladesh. Non è stato facile
sceglierle e di certo si potrebbe andare avanti ancora a lungo, ma occorre
darsi dei limiti. Ciò non toglie che in futuro tornerò a parlare del
Bangladesh.
Per adesso entriamo di nuovo nel campo profughi
dei Rohingya a Cox's Bazar, di cui ho già parlato a fondo per la foto della
ragazza Rohingya.
Questa fotografia è stata scattata esattamente
davanti la porta dove quella ragazza si era affacciata, era la casa di fronte.
Due immagini potenti in meno di due metri,
quasi fosse stato un buco nero della bellezza. Bellezza non in senso canonico,
ma come scriveva Goffredo Parise: “La vera bellezza è sempre misteriosa: si
sente, ma non si può dire.”
Di questa fotografia esistono diverse versioni,
ho scattato di continuo appena mi sono accorto che qualcosa si muoveva dietro
la tenda.
Io ero ancora intento a fotografare i bambini
davanti a me quando la tenda si è aperta e si è affacciata quella madre ma il
primo scatto è andato bruciato perché è stato un movimento repentino, con un
sole molto forte, che mi ha bruciato le bambine davanti perché io ero
focalizzato sulla madre nella parte in ombra.
In sostanza la madre provava vergogna e si nascondeva dietro la spessa tenda, e si vedeva solo il bambino in braccio, però era curiosa di capire che stava succedendo, perciò dopo alcuni tentativi lei ha scansato la tenda ed è uscita fuori.
Ma questa foto per me è la migliore, perché
mantiene un suo fascino misterioso, vagamente inquietante.
Innanzitutto, a mio gusto, parte della bellezza
di una fotografia è sempre nei colori, nella loro armonia. In questo caso la
tonalità arancio e terra. Uno splendido libro che ho comprato recentemente
parla proprio delle diverse tonalità di colore e la loro storia. Il colore di
questa tenda sembra essere una diversa tonalità del semplice arancio, ma una
sua sfumatura chiamata minio, che deriva dalla “miniatura” nel
Medioevo, ovvero l'arte tipografica di inserire un simbolo o un capolettera di
quel colore vibrante per catturare l'attenzione del lettore.
E messa in quel modo centrale è veramente una
calamita per l'occhio, con gli abiti del bambino che sono di sfumature rosse e
rosate, e l'abito della madre de lo stesso colore delle canne che reggono la
casa.
È un insieme armonico alla vista, dal punto di
vista cromatico.
Poi c'è l'aspetto simbolico.
A volte capita che le fotografie confermino o
siano la controparte visiva di un'idea o una sensazione che è nella nostra
mente. Se conosciamo un luogo o una situazione prima di viverli, spesso le
nostre immagini mentali precedono quelle visive, e quando poi ci troviamo
davanti ad esse accade quello che nell'analisi letteraria è chiamata “agnizione”,
un topos della letteratura greca classica: l'improvviso e inaspettato
riconoscimento dell'identità di un personaggio, che determina una svolta
decisiva nella vicenda.
Ecco, questa foto è stata la mia agnizione
dell'idea che mi ero fatto prima sulle condizioni dei Rohingya, e poi visitando
il campo: un popolo che lotta nell'oscurità per cercare di proteggere
un'identità che è violentemente negata. E chi ne paga maggiormente le
conseguenze, come al solito, sono i più deboli: le donne e i bambini.
In questo senso, la fotografia con la mano che regge il tasbih, il rosario mussulmano, aveva un significato molto potente nel raccontare la loro persecuzione per motivi religiosi, ma continuo a preferire la prima foto per la posizione della tenda centrale che risalta nel fondo nero.
La donna che esce allo scoperto ha anche un
valore meno simbolico perché il suo essere nascosta dietro la cortina è in
realtà l'iconografia dell'identità negata del suo popolo: è il volto che non ci
è concesso vedere, perché l'identità delle persone è nel volto.
C'è solamente questa tenda arancio che sembra
una colata di sangue. C'è l'oscurità alle sue spalle, e il volto del bambino
dagli occhi sperduti; neanche essere in braccio a sua madre gli regala un
sorriso.
Questa fotografia è stato il momento visivo per
me più forte, perché come diceva Antoine D'Agata, non è tanto come noi vediamo
il mondo che è importante, ma è come noi ci relazioniamo intimamente ad esso
che conta.
È stata la mia relazione con il dramma della
popolazione Rohingya, anche se solo metaforica – attraverso un’immagine.
* * *
LE DIECI foto di questa serie sono stato un
modo per raccontarvi la mia intima relazione con il Bangladesh, o meglio, con
Dhaka, per il breve tempo che io sono stato là.
Non è possibile esaurire questo rapporto con
dieci scatti, così come in sole tre settimane, del resto in dieci anni che sono
stato svariate volte a Giacarta io credo
di avere visto neanche la metà di questa città, e sono convinto che Dhaka non è
da meno.
Per conoscere certi luoghi non è sufficiente
una vita, ma questo credo valga anche per le persone che crediamo amare e
conoscere a fondo. Noi siamo come queste città.
Anche se le amiamo intensamente, le conosciamo
da tempo e le percorriamo a lungo ogni giorno, ci saranno sempre delle vie, dei
quartieri in cui non siamo mai stati.
Amare è come ricordare un volto: in realtà noi
non ricordiamo mai al passato un volto in movimento ma sempre come tantissime
fotografie statiche che la nostra memoria cerca di comporre per formare l'idea
del volto che ci preme ricordare. Così è l'amore.
È sempre un'aspirazione e una speranza, mai un
possesso reale.
Le mie dieci fotografie di Dhaka sono il mio
ricordo di questa città e del suo popolo.
Inevitabilmente incompleto,
necessariamente imperfetto,
ma da profondo del mio cuore.
Con alcuni bambini Rohingya del campo. Ukhiya, Cox's Bazar. Bangladesh, 27
February 2020 |
Kassia St Clair: “Atlante sentimentale dei
colori – Da amaranto a zafferano, 75 storie straordinarie” (UTET, 2019)
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