Kuningan. Frascati, 18 giugno 2022 |
La fortuna di relazionarsi con le comunità straniere che vivono a Roma
è anche quella di aver l'occasione di assistere ad eventi o rituali propri del
paese d'origine.
Molto spesso sono delle riproduzioni simboliche in scala minore, come
esemplifica perfettamente e in modo plastico, per la comunità del Bangladesh,
l'edificazione momentanea dello Shaheed Minar che riproduce quello che si erge
nel campus di Dhaka, dove si celebra il “21 Febbraio”, la Giornata della Lingua
Madre in onore dei martiri uccisi in quel giorno: in formato più piccolo e in
polistirolo colorato, per un solo giorno, ma comunque capace di farsi carico di
tutto il suo valore simbolico.
Ogni comunità che vive in altri luoghi porta con sé rituali, oggetti,
abiti o festival, sia per la propria professione di fede quanto per lenire il
dolore della nostalgia della lontananza da casa.
Penso al carnevale boliviano che fa rivivere per via dei Fori Imperiali,
all'ombra del Colosseo, i colori e la gioia del Carnevale di Oruro o la parata
delle reine filippine durante Flores de Mayo.
Per questo motivo sono stato profondamente felice e grato a Ida Ayu
Ratih per avermi invitato a partecipare ad un rituale tipico della cultura
balinese, che non avevo mai visto in vita mia.
Ho conosciuto Ida Ayu e la sua famiglia da pochi mesi e già dobbiamo
salutarci perché a breve tornerà in Indonesia, ma è stata colei grazie alla
quale ho potuto intravedere una piccola parte della millenaria e stratificata
cultura di Bali, isola che non ho mai visitato nonostante in dieci anni sia
stato quasi una decina di volte in Indonesia.
A Roma ci sono circa un centinaio di famiglie indonesiane, intorno a
1200 persone, di cui solo tre famiglie provengono da Bali. Tutte le persone che
ho conosciuto in questi anni sono o musulmane o cattoliche, perciò sono stato
molto sorpreso di sapere che la famiglia di Ida Rayu è hindu-buddhista, nella
tradizione balinese.
Lei e suo marito, Ida Bagus Kade Winaja, provengono da una famiglia
Brahamana, quella che nell'induismo classico è considerata la casta più alta,
ovvero i sacerdoti: anche a Bali è lo status sociale più alto, ma a differenza
dell'India a Bali le caste vengono chiamate warna (colori), per
ammorbidire le differenze tra i quattro livelli sociali, e – come mi ha
spiegato suo marito – non ci sono limitazioni o divieti tra un “colore” e
l'altro, anche nei matrimoni.
Lo scorso sabato 18 giugno le poche famiglie balinesi, e altre amiche,
si sono ritrovate in una villa alle porte di Frascati, non lontano da Roma, per
celebrare il Kuningan, nel giardino dove riposano statue di Buddha e di
scimmie.
È stata una buona occasione per andarmi a studiare questo rituale.
Bali è conosciuta proprio come “l'isola degli dei” o “l'isola dai mille
templi”, per la grande concentrazione di cerimonie rituali che possono essere
classificate in cinque categorie: Dewa yadna (rituali per Dio e le sue
manifestazioni), Rsi yadna (rituali per i sacerdoti), Pitra yadna
(rituali per gli antenati), Manusa yadna (rituali di passaggio) e Buta
yadna (rituali per l'oltre mondo e i demoni).
Fra tutte le celebrazioni, Galungan e Kuningan
rappresentano due dei più importanti appuntamenti per l’induismo balinese.
Queste due celebrazioni hanno luogo ogni 210 giorni, a distanza di 10 giorni
l’una dall’altra, e dopo il Nyepi, il Galungan è la più importante perché è
legata al culto degli spiriti dei parenti defunti che tornano a visitare le
loro vecchie abitazioni.
In balinese galungan significa “vittoria”; in questo giorno, infatti,
si celebra la vittoria del Dharma sull’Adharma cioè del bene sul male, ed è un
ammonimento ed un incitamento a tutti gli esseri umani a combattere le cattive
abitudini e i comportamenti malvagi.
Narra la leggenda che il re balinese Mayadenawa si oppose al culto
induista e nessuno riusciva a sconfiggerlo perché astuto e potente. Solo Indra,
il dio del tuono e della pioggia, fu in grado di colpirlo con una sua freccia
magica: il punto in cui Mayadenawa morì dissanguato divenne una sorgente sacra,
proprio quella su cui sorge il tempio Tirta Empul.
Il Galungan è stato creato per onorare Indra e la sua vittoria morale –
o dharma – sul malvagio re Mahadenawa, che rappresenta l’adharma.
La caratteristica più riconoscibile del Galungan è una decorazione chiamata Penjor. Il Penjor è un alto palo di bambù decorato con foglie di palma da cocco, riso, frutta, tuberi e noci di cocco che rappresentano i doni della natura; esso viene eretto all’entrata delle case balinesi come simbolo di sostegno dell’induismo, di saggezza e di prosperità e di protezione dalle malattie.
Secondo il credo locale, durante il Galungan gli antenati e le divinità
visitano la terra e rimangono per dieci giorni tra gli umani. Il decimo giorno
è chiamato Kuningan, e indica la fine delle celebrazioni e il ritorno in
paradiso degli spiriti divini e ancestrali: kuningan deriva dalla parola kuning
che significa giallo, ovvero il colore del dio Visnu, “il protettore” una delle
tre divinità che formano la Trimurti hindu.
La cerimonia è tenuta nel tempio di famiglia prima che il sole volga a
ovest – prima cioè di mezzogiorno – perché da quel momento in poi le divinità e
gli antenati tornano nelle loro rispettive residenze nell’invisibile mondo
superiore, il Niskala.
Durante il rituale viene usata, dal brahmana, l'acqua che depura dal
male e il riso bianco (bija).
Ogni fedele viene prima benedetto dall'acqua poi riceve dei semi di riso che mette nel punto principale della fronte (cuda mani), chiamato 'ajna chakra', in modo che accresca la saggezza della persona. La sua posizione è la stessa in cui le donne induiste indiane applicano il punto rosso con il vermiglio, non lontano dal sindoor alla base dei capelli, ed ha un potente significato nel mondo induista: ci sono leggende che ruotano attorno alla mitologia indù che narrano come Radha, che era la moglie di Lord Krishna, trasformò il sindoor in una forma, che assomigliava a una fiamma sulla sua fronte.
Dopo la sua applicazione si recita il mantra 'Om Sriyam Bhawantu' che
significa essere intelligenti per la grazia di Dio.
In secondo luogo, i chicchi di riso sono collocati sul petto, al di
fuori dell'esofago inferiore, come simbolo della graduazione del chakra in modo
che la felicità cresca, recitando il mantra 'Om Sukham Bhawantu', che significa
che possiamo raggiungere la felicità per la Sua grazia.
Infine, tre semi di bija vengono inghiottiti e non devono essere masticati, recitando il mantra 'Om Purnam Bhawantu, Om Ksama Ksampurna ye Namah Svaha'.
La piccola cerimonia si è conclusa con un ricco pranzo di cucina
indonesiana e con il relax nel giardino.
Un modo di percepire la profonda cultura di un'isola che ha fatto del turismo di massa un suo tratto distintivo, sostituendo ai piedi dei ragazzi del luogo ai sandali le scarpe da ginnastica di marca – come mi dice il marito italiano di una donna balinese, proprietario della villa – ma che nei suoi angoli lontani e segreti mantiene ancora intatto il suo fascino secolare e magico.
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