“Kathina”. Santacittarama. Poggio Nativo. Rieti, 23 Ottobre 2021 |
Ci sono dei luoghi che sono come dei varchi aperti nello spazio e nel
tempo: varcare la loro soglia significa perdere il legame con la propria città
e quotidianità. È una sorte di vacanza dalla realtà.
Il monastero buddista “Santacittarama” è uno di quei luoghi.
E pensare che la prima volta ci andai nel settembre del 2010, su invito
di alcune mie care amiche dello Sri Lanka per assistere ad una loro funzione
funebre famigliare.
Da allora ci sono tornato molte altre volte e l'ho visto mutare nel
tempo.
Ormai ha compiuto trent'anni: era il 21 marzo del 1990 quando fu
fondato.
All'epoca era una piccola villetta a Sezze Romano, a Latina, offerta da
Vincenzo Piga, uno tra i principali studiosi del Buddhismo in Italia, per
colmare la mancanza del monachesimo theravadin nel nostro paese.
Tra le colline di Poggio Nativo, a Rieti, prese dimora la prima Sangha
(il gruppo monastico) theravadin in Italia, con monaci prevalentemente
thailandesi e dello Sri Lanka.
Anche se a capo del Sangha c'è tuttora Ajahn Chandapalo, l'abate
inglese che vive da decenni in Italia.
“Il Giardino del Cuore Sereno”, è il significato del suo nome, e tra le
sue pareti e la vegetazione, si studia il Dhamma, l'insegnamento del Buddha: il
Satipaṭṭhāna, l'importante termine buddhista in Pali che significa
“instaurazione della consapevolezza” o “presenza della consapevolezza”.
Io ho conosciuto il Buddhismo da ragazzo, come molti di noi, grazie al
capolavoro del 1922 di Herman Hesse, “Siddharta”, che narra le vicende del
Buddha attraverso la vita di Siddharta Gautama, anche se nel romanzo il
personaggio storico di Buddha è incarnato da Gotama.
Questo breve romanzo è uno di quei libri che, quando sei adolescente, è
sempre donato o ricevuto come regalo alle e dalle persone che si amano, siano
esse semplici amicizie o veri e propri amori.
Anche io lo ricevetti in regalo ad un mio compleanno da una ragazza che
amavo profondamente in segreto e che rimase sempre solamente un'amicizia.
Dopo quel capolavoro della letteratura arrivò il più impegnativo
Aśvaghoṣa, il più grande poeta buddhista
del I secolo d.C., con il suo fondamentale “Le gesta del Buddha”, in cui
vengono messi in poesia gli insegnamenti del Buddha.
Certo, non è semplice da ragazzi comprendere quella via ascetica di
rinuncia che diventa radicale se letta nei suoi versi:
“Allora giunse fermamente alla conclusione
che con l'eliminazione della nascita si sopprimono vecchiaia e morte, che con
la distruzione dell'esistenza si distrugge la stessa nascita e che l'esistenza
vien meno per la soppressione dell'attaccamento.”
(Canto XIV, 80)
Di libri ne ho letti altri, perché comunque sono curioso e avido di
conoscere altre religioni e modi di leggere l'esistenza, ma con un certo
distacco.
Poi negli ultimi anni ho intensificato lo studio e seguito gli eventi
induisti e mi sono trovato, specialmente in Malesia, a guardare di nuovo il
volto di Buddha, intricato a quelli della Trimurti Shiva, Brahma e Vishnu.
Comunque, a prescindere dal mio interesse per le religione, rimane la
certezza della bellezza e spiritualità del monastero.
Mentre vivevo in Malesia hanno completato anche la costruzione del
tempio vero e proprio, e la cura dei suoi giardini è incantevole.
Ci sono tornato qualche giorno fa, per la grande festa di Kathina, che
seguo e fotografo ormai per la terza volta, tra cui quella più importante nel
2015, con cui si inaugurò anche la costruzione del tempio.
Kathina è la festa che si svolge alla fine di Vassa, il ritiro
di tre mesi della stagione delle piogge per i buddhisti Theravada in Bangladesh
(noto come Kaṭhina Cībar Dān), Cambogia, Laos, Malesia, Myanmar, Sri Lanka,
India e Thailandia, e inizia dopo la luna piena dell'undicesimo mese del
calendario lunare (di solito ottobre).
Kathina è un termine Pali usato per la cornice di legno impiegata per
misurare la lunghezza e la larghezza con cui vengono tagliate le vesti dei
monaci buddisti. Secondo la leggenda, trenta bhikkhu stavano viaggiando con
l'intenzione di trascorrere Vassa con Gautama Buddha, quando le piogge li
colsero prima che raggiungessero la loro destinazione e dovettero fermarsi a
Saketa. Poiché, secondo i comandamenti del Buddha per Vassa, i monaci mendicanti
non dovevano viaggiare durante la stagione delle piogge, i monaci dovettero
fermarsi.
I bhikkhu trascorsero il loro tempo in pace e praticando il Dhamma,
perciò il Buddha li ricompensò donando loro un pezzo di stoffa che era stato
donato al Buddha da un discepolo laico, dicendo loro di farne una veste da
offrire ad uno di loro.
Questo è il senso della cerimonia, in cui – ogni anno – i fedeli, giunti da diverse città italiane e da Roma, si ritrovano per consegnare come doni le nuove stoffe e il riso ad ognuno di loro.
Quel giorno ho anche parlato di più con una ragazza thailandese, Aggun,
ed una sua amica italiana, Anielka, due bhikkhunī, che stanno studiando come
monache, ma che rimarranno sempre nel saman era,
il periodo di noviziato, poiché nel Sangha del monastero non sono ammesse
monache donne.
Aggun l'avevo già incontrata altre volte ma era sempre sfuggente e io
mi sentivo anche in imbarazzo. Ma, grazie alla fotografia, siamo riusciti a
parlare e a conoscerci meglio, anche se rimane sempre una membrana invisibile e
solida che impedisce ogni contatto fisico tra di noi, se non quello che la
macchina fotografica consente.
Scelta di vita difficile, lontana da me, ma che io rispetto.
Poi, con il mio caro amico Sandro, ci siamo avviati in cerca del
torrente nella fitta vegetazione, dipinta dai suoi meravigliosi colori
autunnali.
Dopo la mattinata nella grande sala del tempio affollata di corpi e
preghiere, abbiamo raggiunto il silenzio del bosco, attraverso il progressivo
godimento della pace delle grotte in cui i monaci vanno a meditare.
Rapito dalle tonalità delle foglie, dal verde intenso del velluto sui
tronchi degli alberi, dal silenzio, appunto, mi sono tornate in mente quegli
insegnamenti letti sui testi buddhisti presi nel monastero.
Quella pratica meditativa che si fonda tutta sulla rinuncia e la
liberazione.
Mentre mi avvicinavo alla riva del piccolo torrente, osservavo le felci
gialle color oro o rosso rubino, pensavo alla moha, ovvero l'illusione (avidya)
che è il fondamento dell'ignoranza dell'uomo incapace di acquisire coscienza
della natura impermalente e fondamentalmente dolorosa delle cose.
Inchinato sulle pietre quadrate nel centro dell'acqua che correva
portando con sé le foglie secche, cercavo di comprendere la scelta di quei
monaci, di Aggun, di Anielka. Quella nekkhamma, la rinuncia, che è
considerata la perfezione, perché è la presa di coscienza di come ogni
esperienza della nostra vita, che sia felice o triste, in realtà non ha peso, è
evanescente, poiché la realtà intera è impermalente, così come il nostro “io”.
Noi ci facciamo ingannare dalla onde piacevoli che i sensi ci donano,
ma nulla dura in eterno, così come le nostre soddisfazioni, il piacere, il
dolore – tutto è volatile.
Lo stesso concetto che abbiamo di noi stessi è una trappola del
“divenire”: ciò che pensiamo di essere “adesso”, in realtà non esiste, poiché
noi abbiamo solo immagini di cosa siamo stati nel passato e visioni di ciò che
potremmo essere, ma se decidiamo di prestare la più forte attenzione a chi
siamo veramente in questo momento, “scopriamo che le immagini si frantumano
come riflessi in un ruscello dove si immerge un dito”.
Ogni cosa dovrebbe svanire, il dolore, la gioia, i sorrisi e le
lacrime: definitivamente liberati, illuminati.
Ed è in quel momento che, guardando le foglie secche intrappolate tra
le pietre del ruscello, vedo una palla dell'albero di Natale, color rosso.
Là, nel torrente della tenuta del monastero, tra le pietre e le foglie.
Questo vedono i miei occhi, questo raccolgono le mie percezioni e i
sensi.
Un piacere superfluo, futile.
Ma in quel piacere riconosco che la mia vita non potrà mai arrivare a
comprendere o condividere quella scelta, quella rinuncia.
Sono troppo profondamente attaccato, e felice di esserlo, alle mie
ferite, ai miei dolori e alle gioie.
Ho scelto la fotografia (o lei ha scelto me) proprio perché mi ricorda
ad ogni scatto-istante che la mia felicità è legata, incatenata, a ciò che i
miei sensi mi donano, a ciò che i miei occhi vedono, fosse anche illusione.
E che siano impermalenti lo so bene proprio perché ogni fotografia
della stesso soggetto non può mai essere identica, ma – come ogni fotografo
crede in cuor suo – amo ingannarmi pensando che ciò che fotografiamo rimane permanente
grazie alle nostre immagini estrapolate dal divenire.
Ho scelto di accettare la mia oscurità, portare sulle spalle e inciso
sulla pelle ciò che mi ha ferito nel passato.
Non posso e non voglio rinunciare alla stupore dei sensi. Di ciò che
vedo. Di questi colori splendidi, del torrente che turbina tra le pietre; della
lussuria e della rabbia. Dell'acqua e del fuoco.
Della meraviglia per la presenza surreale di una palla decorativa di
Natale in un ruscello di un monastero buddhista, ad ottobre.
Lascio agli altri il privilegio della liberazione, di quella serenità
ascetica che è lontananza da ogni piacere e sofferenza, dall'amore e dall'odio.
Ognuno è ciò che sceglie di essere.
Comunque nel prendere di nuovo in mano “Siddharta” di Herman Hesse, ho
letto la dedica scritta da quella ragazza oltre trenta anni fa.
Erano parole dello stesso Hesse:
“In fondo ai tuoi occhi non c'è serenità, c'è solo tristezza;
come se i tuoi occhi sapessero che la felicità non esiste,
che ogni cosa bella e cara non rimane a lungo presso di noi.”
Lei mi conosceva molto bene. Chissà se ancora condividerebbe quelle parole su di
me.
Ed io?
Meglio non pensarci e tornare ad osservare quella piccola sfera rossa tra le foglie.
Le mie fotografie di Kathina 2018: Foto: Kathina 2015 e inaugurazione dell’avvio della costruzione del tempio
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