“La Via non è nel cielo;
la Via è nel cuore."
Khin |
A volte la vita irrompe prepotente nelle trame della fantasia e
distrugge ogni cosa.
Recentemente mi sono accorto che, per coincidenza (se esistono),
giungeva a me spesso la Birmania, un paese che non è mai stato prioritario nei
miei studi e interessi sull'Asia, se non per vie traverse a causa della
questione dei Rohingya.
Nonostante collezioni da anni libri fotografici e storici sui paesi
asiatici, la Birmania è sempre rimasta a lato.
L'unico momento di contatto reale fu durante i miei anni a Penang, in
Malesia, dove visitai più volte il tempio buddista birmano.
Poi è arrivato il bellissimo romanzo “La sposa birmana” di Journal-Gyaw
Ma Lay (ObarraO Edizioni): leggerlo mi ha catapultato in un mondo a me
totalmente sconosciuto, se non per le pagine dei diari di Terzani e le
fotografie viste nei libri.
Alla lettura di quel romanzo si sono aggiunti i racconti di un mio
carissimo amico su quello che ha considerato il viaggio più bello della sua
vita: la Birmania, appunto.
Nello stesso periodo, navigando su Instagram, sono venuto in contatto
con profili di persone che vivevano in Birmania, proprio a partire dalla causa
dei Rohingya che però mi ha condotto a coloro che provavano a documentare la
rivoluzione in atto in quel paese contro l'esercito.
Tra queste persone ho conosciuto colei che sarebbe diventata la Daisy del mio racconto: Khin Cho Cho Win. Era il 14 giugno.
Lei non aveva nulla a che fare con la rivoluzione o la politica – era
una semplice abitante di Yangon che, come molti in quella città, provava a
dimostrare il suo affetto per Aung San Suu Kyi.
Giorno dopo giorno iniziammo a parlare; grazie a lei sono venuto a conoscenza,
in modo diretto, di quella cultura che mi aveva profondamente affascinato
durante la lettura del romanzo di Ma Ma Lay, anche se non troppo distante da
quella thai però con le sue differenze e peculiarità.
È nata un'intensa amicizia, Khin era così felice che io fossi
interessato a conoscere la sua cultura, così ogni giorno mi raccontava quelle
che erano le sue abitudini, la sua routine.
Il suo nonno paterno era straniero, un italiano giunto in Birmania
durante la Seconda Guerra Mondiale, suo padre si chiamava Michael e sposò una
donna birmana: perciò se il suo nome officiale fu Khin, suo padre invece la
chiamava sempre Daisy.
I libri rimangono fondamentali per conoscere le tradizioni e i diversi
aspetti di popoli e paesi, ma l'unico modo per approfondirli veramente è il
contatto diretto: viverli sulla propria pelle.
Lei non solo mi raccontava nei minimi dettagli dal cibo ai vestiti che
si indossano, o le modalità della preghiera buddista, ma mi mandava anche le
fotografie di ciò che vedeva dal suo negozio di abiti per monaci, le proteste
del popolo contro l'esercito, gli avvisi dell'ambasciata americana che
monitorava la situazione delle varie città: Yangon, Mandalay...
Tutto questo si è fuso nella mia mente e mi è venuta la voglia di
scrivere un racconto, ovviamente ispirato anche dal romanzo che avevo appena
letto. Un racconto breve, che è sempre stato uno dei miei generi letterari
preferiti – penso ai racconto brevi di Dino Buzzati, Mario Tobino, Marco
Lodoli, Kafka, Cechov, Murakami o Carver.
È stato un esperimento perché erano decenni che non scrivevo un
racconto, avendo poi abituato tutti i miei lettori del Blog ad articoli sulla
fotografia, l'arte o il racconto dei luoghi che avevo visitato.
Così è nata la “Piccola Storia Birmana”, ovvero una storia d'amore
leggera e platonica, nello stile romantico del film “In the Mood for Love”, con
lo sfondo degli scontri tra la popolazione e l'esercito che infiammano la
città.
Non è stato assolutamente semplice perché non ci sono stato mai stato a
Yangon ed era una tradizione culturale completamente nuova per me.
Ma avevo Khin-Daisy che mi diceva i nomi delle strade, dei monasteri, dei cibi. Mi aiutava a capire ed immaginare bene, quando non capivo, con l'aiuto delle sue fotografie, come fu a proposito della thanaka di cui ignoravo la provenienza, allora lei mi mandò la foto della corteccia da cui si ricava il pigmento giallo usato come cosmetico.
La scelta della canzone penso sia stata la parte più difficile ma anche
misteriosa.
Ammetto con onestà di non aver mai ascoltato una canzone birmana fino a
quel momento, però sono un tipo metodico nelle mie ricerche.
Mi piaceva l'idea che una canzone diventasse il leitmotiv della storia,
perciò sono andato su YouTube e ho cercato i cantanti classici birmani e il
primo nome in alto nelle indicizzazioni era quello di May Sweet, con la canzone
“Maung”.
Ho chiesto a Khin se era famosa e lei mi disse che era un classico
della canzone popolare.
Allora sono andato e cercare il testo in un sito birmano di liriche di
canzoni, l'ho copiato e ho tradotto – a caso – una sola strofa, la quale era
assolutamente perfetta per l'atmosfera della storia: così è nato quel primo
racconto.
Ovviamente non aveva nulla a che fare con la vera vita di Khin, ma molti dei particolari, dal lavoro, alla figlia, a certe abitudini, così come il nome, appartenevano a lei.
Quel racconto ebbe un forte impatto, piacque veramente tanto ed era
così “reale” che non poche persone mi hanno chiesto stupite di quando io avessi
visitato Yangon, dato che non ne avevo mai parlato prima.
Questo entusiasmo mi ha dato l'impulso di scrivere una serie di
racconti, sempre storie brevi di donne per un paese dell'Asia ché mi era più a
cuore: Filippine, Indonesia, Malesia, India e Thailandia.
I miei “Racconti Asiatici”, con la speranza di pubblicarli un giorno
qui in Italia.
Naturalmente Khin era felice e commossa per quel racconto, anche se non parlava di lei personalmente: però c'era il suo nome, la sua cultura, la sua quotidianità. E poi quella canzone scelta per puro caso, ma che parlava dei cicli della vita a cui lei – da devota buddista – credeva fermamente.
Noi non abbiamo mai smesso di parlare da allora, ogni giorno, anche se
solo per un saluto, un come stai, o un aggiornamento sulle condizioni politiche
o sanitarie della sua città.
Io ero giunto ormai all'ultimo racconto dei sei.
Nell'ultime settimana Khin ha iniziato ad avere la febbre, ad essere
debole, nonostante questo non ha mai potuto smettere di andare a lavorare.
Mi rassicurava, diceva di non preoccuparmi, anche se sentivo che non
stava bene. Il sabato sera ci siamo salutati ed io ero felice perché la
domenica sarei andato, dopo anni, al monastero buddista e le dissi che le avrei
mandato molte fotografie per farglielo vedere.
Khin mi disse che la febbre era molto alta ma che comunque era felice
per me. Soffriva un fortissimo mal di testa ed era debole.
Il giorno dopo, come promesso, le spedì per messaggio tante fotografie
del monastero e dei monaci.
Niente. Non era più online. Ogni giorno andavo a controllare ma non era
più attiva.
Non ho mai avuto il suo numero di telefono perché l'esercito – mi diceva – controllava i telefoni e non erano concesse telefonate oltre i confini nazionali, obbligando inoltre le persone, in strada, durante le perquisizioni a mostrare ai soldati le foto e i profili social per vedere se ci fossero contenuti contro l'esercito o a favore di Aung San Suu Kyi, e nel caso si poteva anche essere arrestati.
Per una settimana non ho più avuto suoi messaggi e già una parte di me
temeva per il peggio. Poi, il 31 luglio, ho ricevuto un messaggio da un nome
sconosciuto.
Era sua figlia che mi scriveva dicendomi che lei appunto la figlia di
Daisy e che sua madre era morta per covid quel pomeriggio.
Per me è stato un trauma.
Troppi elementi tutti insieme nello stesso istante ed ero anche sulla
metropolitana per andare a cena con delle amiche.
Khin era morta – aveva chiesto a sua figlia di farmi sapere se le fosse
successo qualcosa di brutto – lei si era presentata come la figlia di “Daisy”,
ovvero con il nome del personaggio della mia storia.
Ormai sono trascorsi alcuni giorni ma io sto ancora male, perciò ho
deciso di scrivere perché tenere dentro significa non liberarsene mai: le
parole su carta aiutano a trascinare via almeno parte del sangue anche se la
ferita resta e resterà.
Sua figlia ha 19 anni e non fa che piangere e dirmi quanto le manca sua
madre, che lei le parlava molto spesso di me, dell'italiano affascinato dalla
cultura birmana e che aveva reso la loro vita quotidiana un racconto piaciuto a
molti.
Mi ha chiesto di essere suo amico perché la madre le diceva che ero una
persona buona e mi ha mandato le foto del volto della madre appena morta e del
suo funerale.
Non solo. Anche una vecchia foto di lei piccolina in braccio alla madre
ancora giovane.
Sembra una di quelle foto-cartoline sbiadite che ho in tanti libri di
fotografia sull'Asia, ma questa ha un significato profondamente diverso: è
Daisy.
Conosco i suoi pensieri e le sue abitudini.
È una fotografia che fa male proprio per quanto è dolce e spensierata.
Nelle nostre fotografie manca sempre il senso del “progetto” futuro
delle nostre esistenze proprio perché sono attimi congelati nel tempo.
Nelle fotografie non esiste mai la “morte” perché finché siamo ritratti
vuol dire che siamo vivi e lo saremo per sempre in quella immagine; poi c'è la
foto del suo volto sul cuscino con gli occhi chiusi e i tubi nel naso e sai che
quella è la morte, anche se la parte infantile di me vuole dannatamente credere
che sta solo dormendo.
Quella foto di loro due è dolce perché ignora il futuro.
Sua figlia mi ha dato il permesso di mostrarvela con altre della sua infanzia, così come quella del funerale.
Non se ne parla mai, ma adesso in Birmania la gente muore ogni giorno
in casa, l'esercito dirotta tutte le medicine dagli ospedali civili a quelli
militari, i dottori non possono andare nelle case a visitare. I corpi dei
defunti vengono ammassati e bruciati ai bordi delle strade.
Il fumo che esce dalla ciminiera alle spalle della figlia è quello del corpo cremato di Khin. Di sicuro, se mai pubblicherò un giorno questi racconti saranno dedicati a lei.Tanto lo so che è morta serena, perché come cantava May Sweet, c'è sempre un prossimo ciclo di vite.
Grazie per avermi fatto conoscere la tua cultura attraverso la tua vita.
In memoria di Khin Cho Cho Win – Daisy Kyawwin
R.I.P.
Yangon, 30 ottobre 1972
Khin da giovane e con sua figlia. |
Yangon, 1 Agosto 2021 |
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