“Hangga't makitid ang kumot, matutong mamaluktot.”
“Mentre la coperta è corta, impara a rannicchiarti.”
(Proverbio Filippino)
Manila Airport |
Imelda non tornava al paese ormai da dodici anni.
L'aereo atterrò all'aeroporto di Manila con un ritardo di venti minuti.
Aveva trascorso l'ultima mezz'ora del volo con il volto appiccicato
all'oblò alla sua sinistra, con le voci dei passeggeri che erano diventate
un'unica melassa di dialetti filippini.
Urla di bambini, pianti, risate e persone che già parlavano al telefono
con chi li aspettava all'aeroporto prima ancora che fosse dato il permesso di
accendere i cellulari.
Qualcuno stava tirando giù i bagagli a mano con la pancia che tracimava
dal bordo della maglietta sollevata nello sforzo di prendere le pesanti
valigie.
Allontanò il volto dallo spesso vetro appannato solamente quando l'aereo spense i motori.
Dodici anni.
Si fece aiutare a prendere la valigia dallo steward, un bel ragazzo
alto con il naso all'occidentale e gli occhi a mandorla, pelle olivastra e
capelli neri impomatati. Le prese il piccolo trolley rosso con un sorriso
educato e distaccato.
“La sua valigia, po”.
Lei ringraziò e si mise in fila per uscire tra la fila di sedili,
mentre le hostess belle e alte come modelle sorridevano e ripetevano a
cantilena di tornare a volare con loro.
Sulla moquette coperte, bustine di plastica delle cuffie e qualche
carta.
Appena raggiunse il corridoio che dall'aeroplano conduceva
all'aeroporto fu sopraffatta dall'odore acre di umidità che conosceva bene, ma
aveva quasi dimenticato.
C'è chi la superava correndo trascinando i trolley e chi cercava la
toilette.
Imelda procedeva lentamente, guardando i poster luminosi sulle pareti
che mostravano isole meravigliose e mari azzurri.
Andò a ritirare la valigia dal nastro scorrevole e caricò tutto sul
carrello, rifiutando stizzita l'insistenza di alcuni uomini che volevano
portare il carrello a tutti i costi.
“Hindi po! Hindi po!” Ripeté con le due mani piantate con forza sul
manico.
Raggiunse l'atrio, fuori dal cancello degli Arrivi e fu stordita dalla
moltitudine di voci che urlavano nomi di parenti.
Lei socchiuse gli occhi per mettere a fuoco tra tutti quei volti –
doveva esserci qualche nipote.
“Tita Imelda! Tita Imelda!” Era per lei, la chiamavano
zia.
Riconobbe Jacinto e Oggie, due dei suoi nipoti che si sbracciavano tra
la folla.
Sorrise con garbo e si diresse verso di loro.
Jacinto, il più grande e cicciottello, appena le fu vicino la strinse
in un abbraccio appiccicoso di sudore.
“Quanto tempo, zia!”
Sembrava volesse stritolare il suo corpo minuto come un boa
constrictor. Lei sorrise e annuì, mentre Oggie spingeva il carrello verso
l'uscita.
“Come è andato il viaggio, tita? Tante ore! Stanca? Hai fame? Vuoi mangiare
qualcosa?”
Le chiedeva Jacinto senza darle il tempo di rispondere ad una domanda.
Manila Airport |
Non era riuscita a tornare da lungo tempo.
Il lavoro non le consentiva lunghi spostamenti, le era appena
sufficiente avere mezza giornata libera il giovedì e tutta la domenica.
Avrebbe voluto abbandonare tutto questo da anni, ormai aveva superato i
cinquant'anni, era stanca. Stanca dentro, come diceva alla sua amica suora
nella chiesa dove andava ogni domenica.
I figli si erano sposati e vivevano per conto loro.
Suo marito Romulo si era ammalato di diabete molti anni prima e aveva
espresso il desiderio di tornare in Filippine.
“Voglio morire dove sono nato”. Le disse una sera.
Lei non poteva rifiutare il suo desiderio, né tantomeno seguirlo.
Chi avrebbe spedito i soldi, poi, per pagare la scuola ai nipoti nel
paese, a finire di costruire la grande casa famigliare, e le medicine per il
marito?
Lui non riusciva più a lavorare, si sentiva anziano e spossato già
appena alzato la mattina. Voleva solo tornare a Ilocos il prima possibile.
Quando lui partì da Roma lei gli promise che sarebbe tornata presto a
trovarlo, ma ogni volta che chiedeva un periodo di vacanza alla famiglia per
cui lavorava le veniva rifiutato, le dicevano che avevano bisogno di lei e se
fosse andata via per un lungo periodo avrebbero dovuto trovare un'altra
domestica.
Così il primo anno, poi l'anno successivo, fino a dodici anni.
Questa fu la prima volta che le furono concessi dieci giorni.
Salirono sul suv nero splendente, appena lavato, comprato con parte del
suo stipendio che spediva ogni mese.
Dentro c'erano due bambini piccoli che non sapeva neanche chi fossero.
“Tita, lui è Josè, il figlio di Gina, ti ricordi?”
Diceva Jacinto con il volto sudato e sorridente.
Imelda provò a cercare nella memoria ma niente, annuì sorridendo per
non offendere il nipote.
“L'altro è Santo, il figlio della vicina di casa, Perlita, sai no?!
Voleva venire a tutti i costi, voleva viaggiare!” Disse il nipote mentre
pizzicava la guancia del bambino, poi li spinse di lato, “Fate spazio a tita
Imelda!”
Lei salì dietro con i due bambini mentre i nipoti salirono davanti e
misero in moto la macchina.
Il viaggio sarebbe stato lungo, molte ore.
Guardò l'orologio e si rese conto che ancora non aveva spostato
l'orario di sei ore avanti. Pensò che in Italia si stava appena alzando e
avrebbe dovuto preparare la colazione per Luisa, prima di portarla a scuola e
stirare la camicia di Alessandro; lui amava avere una camicia perfettamente
stirata prima di andare in banca.
“Come stiri le camicie tu, Imelda, neanche mia moglie!”
Le amava dire lui con sincera ammirazione mentre sistemava il nodo alla
cravatta tra gli angoli del colletto perfettamente appuntiti.
Aveva imparato ad aggiungere un goccio di acqua di colonia nell'acqua
del ferro da stiro così che le camicie avevano un leggerissimo aroma dolce.
“Questo è il tuo segreto”, le sussurrava lui all'orecchio, annusando il
tessuto, sorridendo mentre andava verso la porta.
Imelda era felice.
Prima di partire lasciò la boccetta di acqua di colonia alla moglie.
“Ne versi una goccia nell'acqua del ferro da stiro, signora. All'ultimo
passaggio spruzzi un poco di vapore a distanza di qualche centimetro,
soprattutto sul collo. Suo marito sarà felice.”
La moglie annuì.
Lavorava per loro da oltre venti anni.
Aveva visto crescere due dei loro tre figli e morire il padre anziano
di Alessandro; erano riusciti anche a trovare un ottimo dottore per curare suo
marito, ma quando la sua salute sembrò peggiorare dovette confessare a loro che
lui voleva tornare in Filippine.
All'inizio furono confusi, non comprendevano né perché il marito non
voleva curarsi a Roma né se Imelda lo avrebbe seguito.
Imelda era una donna minuta, appena un metro e cinquanta, magrolina,
dalla pelle scura e gli occhi grandi.
Non aveva mai pianto davanti a nessuno.
Se doveva farlo aspettava la notte.
I primi tempi dopo la partenza del marito non fu facile; lei voleva
bene a quella famiglia, sapeva che era indispensabile, entrambi erano ancora
giovani e lavoravano – tre bambini da accudire sono impegnativi.
Quando non le concessero una lunga vacanza ne soffrì molto. Chiamava la
mattina in Filippine per sapere come stava suo marito, poi piangeva qualche
lacrima, si asciugava velocemente gli occhi e andava in cucina a preparare la
colazione.
Non riusciva neanche più a capire bene, con il passare degli anni, come
stesse veramente suo marito, erano più le volte che parlava con sua cognata
Luzviminda.
“Puoi mandare 200 euro?”, “Ci servono 150 euro, tita”, “Abbiamo
finito le mura del garage, ma ci servono altri soldi per il cortile, ate!”
Questo le rispondevano quando chiedeva notizie ai suoi parenti o
direttamente al marito.
Guardava fuori dal finestrino, la città scorreva in filamenti colorati
orizzontali, mentre la radio mandava una canzone di Eva Eugenio.
I bambini al suo fianco guardavano un cartone animato sul telefono di
uno dei due.
“Fa caldo vero, tita?” Le chiese Oggie rivolto verso di lei.
Lei si fece aria dal colletto della maglietta sudata. Annuì.
“Povera zia! Non ti ricordavi il caldo di qui, di ba?”, disse
mentre rideva e aumentava l'aria condizionata.
Imelda aveva la fronte sudata e le dita dei piedi congelati.
Pensandoci bene era ormai quasi un anno che non parlava più con suo
marito; tutti le dicevano che stava meglio, che tornare a casa lo aveva
guarito.
Che grazie ai soldi che mandava lo aveva salvato.
A Roma sembrava sul punto di esalare l'ultimo respiro...
“Kumusta na ng asawa ko?” Solamente dopo due ore di viaggio Imelda
chiese come stava suo marito.
I due nipoti guardavano la strada davanti, dondolando la testa sulla
canzone alla radio.
“Tutto bene, tita. Tutto bene. Hai fame? Devi andare al bagno? Ci
fermiamo?” Le chiesero.
Dopo tredici ore di volo e tre di automobile voleva assolutamente
sgranchirsi le gambe.
“Va bene, fermiamoci un attimo.”
Si fermarono presso un 7Eleven lungo la statale che conduceva verso
nord. I due nipoti scesero dalla macchina per fumare, mentre i due bambini
corsero dentro il piccolo supermarket.
Imelda raggiuse il bagno delle donne, sporco e maleodorante. Dopo aver
urinato si sciacquò il volto stanco. Riusciva a malapena a vedersi nello
specchio annerito dall'umidità.
Si rese conto che ancora non aveva acceso il telefono; uscì dai
gabinetti e rimase nel corridoio che portava al supermarket con le spalle poggiate
al muro. Estrasse il telefono, cambiò la sim con quella locale portata da
Jacinto e lo accese.
Rimase a fissare lo schermo con una vecchia fotografia da giovani di
lei e il marito, finché iniziò un concerto di notifiche di messaggi, uno dietro
l'altro, tutti dallo stesso numero.
Era Elisabetta, la donna per cui lavorava.
“Come stai?”, “Sei arrivata?”, “Perché non rispondi?”, “Imelda, tutto
bene?”, saranno stati una decina su questo tono.
Lei iniziò a digitare velocemente.
“Si, signora, tutto bene. Mi scusi, ho acceso adesso il telefono.” In
Italia era l'ora di pranzo.
Elisabetta rispose immediatamente.
“Meno male, eravamo in pensiero.”
Imelda rispose con un emoticon sorridente.
Con la coda dell'occhio vide i due nipoti e i bambini, all'interno del
supermarket, comprare birre e biscotti.
Arrivò un nuovo messaggio. Imelda lo aprì e lesse.
“Ti ricordi della maglietta di Luisa? L'abbiamo trovata. L'aveva
dimenticata da Giordana.”
Imelda sorrise. Pochi giorni prima la piccola Luisa era arrabbiatissima
perché non trovava la sua maglietta preferita.
Cercarono in ogni cassetto e nell'armadio.
Imelda si prese una sfuriata dalla signora.
Lei rimase in silenzio con lo sguardo abbassato.
Era certa che quella maglietta non fosse in casa: era lei che lavava,
stirava e riponeva nei cassetti ogni abito di quella casa, specialmente quelli
dei tre figli.
“Scusami per l'altra volta”, un nuovo messaggio di Elisabetta, con un
emoticon dispiaciuto.
Le dita corte dalle nocche prominenti di un marrone scuro digitarono
velocemente la risposta.
“Non fa niente, signora. L'importante è che la maglietta ha trovato.”
Mise il telefono nella tasca destra dei pantaloni e andò verso la
macchina.
Jacinto al volante si voltò verso di lei. “Tita, è ancora lungo il
viaggio, è meglio che provi a dormire.”
Lei guardò l'orologio, mancavano ancora circa quattro ore per Ilocos
Norte. Era stanca.
Oggie e il bambino sconosciuto salirono in macchina.
“Si parte!”, disse sorridente Jacinto, che puzzava di birra.
Gli occhi di Imelda si fecero pesanti. Il sole stava tramontando e la
statale correva tra pianure e monti. I due bambini russavano distesi e
appiccicati uno all'altro al suo fianco.
Stava per cedere al sonno quando il telefono vibrò nella tasca.
In radio andava un brano degli Asin.
Era un messaggio di Luisa.
Lo aprì e vide un selfie della bambina con la maglietta con il volto di
Billie Eilish.
“Avevi ragione tu, zia.”
Le scriveva sotto con tanti fiori e bacini per emoticon.
Imelda rispose con un sorriso e chiuse il telefono.
Il capo già pesava sulla spalla sinistra.
CONTINUA...
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