Il Velo del Sorriso: "My Bangladesh" Photo Series (7)

“A volte la tua gioia è la fonte del tuo sorriso,
ma a volte il tuo sorriso può essere la fonte della tua gioia.”
(Thich Nhat Hanh)

Donne in una Slum area. Raja Bazar. Dhaka, 23 Febbraio 2020

A volte dobbiamo lasciarci condurre anche dalle sensazioni altrui nel valutare le nostro fotografie. Ognuno di noi è innamorato di alcune foto più di altre; ma è importante anche osservare come molte persone concordino nel considerare più interessante o affascinante un'immagine che magari, a noi, non era poi sembrata così potente.

È ovvio che ogni fotografia che io scelgo e pubblico è tra le mie preferite rispetto a molte altre che rimangono negli archivi, e magari verranno ripescate tra mesi o anni. Perché come noi cresciamo e cambiamo, allo stesso modo muta ciò che ci appassiona o commuove. La stessa “idea di bellezza” cambia con gli anni.

Per esempio, è successo con questa fotografia di ritratto. Dopo il mio rientro in Italia ho pubblicato molti ritratti di volti, di donne, uomini, giovani e bambini del Bangladesh. Ma questa è stata la foto, con mia grande sorpresa, che è piaciuta di più. Trasversalmente a uomini e donne, dalla Malesia all'Italia, dall'Indonesia al Bangladesh stesso. Dunque è la fotografia che ho voluto scegliere come ritratto simbolo in questa serie di dieci immagini per parlare del Bangladesh, dopo la ragazza Rohingya. E poi, provo a capire.

Perché ogni fotografia è una domanda; anzi, così dovrebbe essere. Una domanda che viene posta a noi stessi e agli altri che guardano la foto. A maggior ragione un ritratto, io credo. 

Fare un ritratto è per me la cosa più difficile. Difficilissima. È un punto interrogativo poggiato su qualcuno,” diceva Henri Cartier-Bresson. Profonda verità. In questo caso poi non è il classico ritratto con un volto, ma ci sono bensì due donne.

Antefatto.
 
“Ek Ronga Ek Ghuri”: lezione con i bambini del quartiere.
Sukrabad. Dhaka, 23 Febbraio 2020

Quella è stata una mattina in cui sono andato a visitare la classe della ONG “Ek Ronga Ek Ghuri” che offre lezioni ad alcuni bambini che vivono nel quartiere povero, uno slum a Sukrabad. Anche se non come quelli che ho visitato a Dhaka, fatti di capanne e immondizia di cui ho già parlato. Raja Bazar è un quartiere affollato, con vecchi condomini tra vie molto strette, spesso con locali di una singola stanza a famiglia e la cucina al piano terra in comune per tutto il palazzo. Ma almeno loro hanno un tetto e i palazzi sono solidi.

Cucina in comune per gli inquilini del condominio
Raja Bazar. Dhaka, 23 Febbraio 2020

Dopo la lezione, alcuni bambini mi hanno portato a vedere dove vivevano, nei loro appartamenti, salendo scale e scale e correndo tra i vicoli angusti. In una delle vie strette che portavano a questi condomini, affollatissimo di persone—a maggior ragione se arriva uno straniero con una macchina fotografica accompagnato dai bambini che vivono là—c'erano queste due signore.

Lo spazio non era molto per camminare, perciò loro, vedendomi arrivare, per farmi passare si sono accostate alla parete del muro in pietra. E in quel momento le ho ritratte. In questo caso una singola foto, anche perché i bambini avanti a me, impazienti, stavano già entrando nel palazzo e me li sarei persi. Perciò una sola foto, un sorriso, “Dhonnobad”—grazie in lingua Bangla—e via.

In effetti, anche a me piace molto questa foto: c'è una donna il primo piano, una seconda più anziana sfumata e un uomo in lontananza che cammina. La seconda donna ha il vestito dai colori molto forti e sgargianti che danno energia all'immagine, poiché i colori del velo della prima donna sono quasi dello stesso colore della parete e della camicia dell'uomo. Viola e nero.

La donna, come spesso capita in Bangladesh, ha un'età difficile da stabilire, ma di certo ancora giovane. Abbozza un sorriso. Lo sguardo è molto potente, da un punto di vista percettivo, perché mentre l'occhio destro è sula linea verticale dei terzi, l'occhio sinistro e nella linea centrale dell'inquadratura: due caratteristiche che aumentano la forza degli occhi, per chi la sta osservando, come si sa studiando le regole della composizione in fotografia.

Questa è la lettura estetica dell'immagine.

Ma ovviamente non è questo che porta tanta gente ad amarla. Ci deve essere altro. Ed è difficilissimo capirlo, come diceva Cartier-Bresson. È un punto interrogativo.

Io amo dalle viscere ritrarre e leggere i volti, da molti anni, e sono state molte le mie lezioni in Asia, negli ultimi dieci anni, sulla lettura dei volti in fotografia. E sempre ne rimango affascinato. Come cito sempre, la più bella e azzeccata definizione del ritratto è nel verso della poetessa irachena Amal Al-Jubri:

“I volti sono lingue senza alfabeto
i volti sono lettere che restano sempre chiuse.”

La semantica emotiva e muta di trentasei muscoli che cambiano in modo impercettibile ogni secondo. Dodici solamente relativi alle labbra. Su cui ogni volta noi dobbiamo interrogarci, anche su quelle che sono considerazioni date per scontate da tutti quanti. Vedi ad esempio il sorriso.

È ovvio per ognuno di noi che cosa è un sorriso. Ma poi così ovvio non è se, dopo un secolo, stiamo ancora ad interrogarci sulle labbra della Gioconda di Leonardo da Vinci.

Incontrare una donna con il niqab, il velo islamico che copre tutto il volto e lascia scoperti solo gli occhi, e avere la certezza che lei ci sta sorridendo deve far riflettere.

Non è poi così scontato, o irrilevante, chiederci da dove arriva quella certezza. Gli occhi sono lo specchio dell'anima, modo di dire comune a tutte le lingue e latitudini, perciò la risposta è immediata: se non vedi le labbra sai che una persona sorride guardando i suoi occhi. Si certo, e anche i muscoli vicino agli occhi. Perché delle labbra che sorridono agiscono sul reticolo dei muscoli che sono sul resto del volto.

E questa è la lettura fisiognomica.

Parte del fascino di questo ritratto è nel modo in cui la donna mi guarda. Nella calma placida dello sguardo, e nel sorriso che è minimamente abbozzato delle labbra, un micro movimento, come la superficie del mare increspata dalla brezza del vento. Da là noi proviamo ad entrare nei suoi occhi, perché questo è il punto interrogativo. Almeno a me accade questo. 

Ecco perché amo la frase di Cartier-Bresson. Io voglio sempre cercare di dare una risposta a quella domanda.

Lo sguardo è calmo, ma ha una nota di pesantezza, anche come è leggermente inclinata la testa all'indietro.

Non è una donna dei quartieri alti, o una ragazza che incontri nei ristoranti alla moda di Dhaka. Magari non è nata neanche nella capitale, come capita per la maggior parte delle persone che vivono negli slums o nei quartieri molto popolari.

È di una dolcezza malinconica, è un sorriso gentile che non si vede, trattenuto nel cuore, forse attenuato dalla quotidiana sopravvivenza. Lentamente il velo cade tra noi che la guardiamo e dialoghiamo con la sua lingua senza alfabeto.

E la sua bellezza—si lo so, questa è una parola odiata da molti fotografi e critici della fotografia e dell'arte, ma io non sarò mai stanco di riempirmi la bocca di questa parola—sta forse proprio in questo contrasto, nei colori cupi del velo e della parete che la circondano, nello sguardo calmo ma stanco, pesante, e quelle labbra chiuse, che non rientrano nella categoria di significato di un sorriso; oppure che sorridono. Da dentro.

Regalando a noi la consapevolezza e la speranza che nel fondo di ogni situazione difficile, nel grigiore della quotidiana sopportazione, c'è sempre un sottile filo di luce, impalpabile ma possibile, come un muscolo che non lo vedi ma si muove. Come un sorriso.

Ed è un invito a non arrenderci mai, a non tirare i remi in barca e chiudere le palpebre, ma resistere e sorridere. Forse è per questo che questa dolce donna è stata amata da così tante persone.

È proprio quello di cui noi abbiamo bisogno, adesso.

Madre insieme alla figlia, studentessa della scuola. Raja Bazar, Dhaka, 23 Febbraio 2020



Clément Chéroux: “Henri Cartier-Bresson – Lo sguardo del secolo” (Contrasto, 2017)
“Non ho peccato abbastanza – Antologia di poetesse arabe contemporanee” a cura di Valentina Colombo (Piccola Biblioteca Mondadori, 2013)





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