Il Gomitolo della Memoria


“La parola greca per “ritorno” è nostos.
Algos significa “sofferenza”.
Quindi la nostalgia è la sofferenza causata da un desiderio inappagato di tornare”.
(Milan Kundera)

Breakdancers. Rome – August 2011
Breakdancers. Roma – Agosto 2011

Che la memoria e la concezione del passato non sia un qualcosa semplice da definire non è una novità.

Che il tempo scorra in modo non lineare e dal valore accumulabile non lo invento io, di certo.

Marcel Proust ci ha scritto un romanzo di migliaia di pagine, e Henri Bergson rese questo enigma con una metafora divenuta celebre nel mondo della filosofia.

Secondo Bergson il tempo non è unico, bensì esistono due tempi: il tempo della scienza e il tempo della vita. Il primo è fatto di istanti differenti solo quantitativamente; questo tempo è una somma di secondi ed è anche reversibile poiché un esperimento può essere ripetuto e osservato un numero indefinito di volte. Il tempo della vita, quello della psiche, consta invece di istanti fra loro diversi qualitativamente. Gli attimi vissuti in questo tempo sono irripetibili.

“Per un essere cosciente, esistere significa mutare, mutare significa maturarsi, maturarsi significa creare indefinitamente sé stesso.”

Il tempo spazializzato della fisica lo immaginò come una collana di perle, tutte eguali e distinte fra di loro, mentre l’immagine del tempo della durata è un gomitolo di filo. Questo gomitolo muta continuamente e cresce su sé medesimo.

 

Breakdancers. Rome – August 2011

Noi ricordiamo mai seguendo un percorso di perle in fila una dietro all'altra, tutte uguali, ma in modo emozionale, senza un andamento stabilito dal tempo ma dalle nostre emozioni, come un gomitolo che si avviluppa.

Un'immagine di dieci anni fa può avere un carattere e una valenza più forte di ciò che mi è successo tre anni fa.

È affascinante la memoria.

Ovviamente c'è una ragione per cui sto scrivendo di questo.

E non per Bergson, pace all'anima sua.



Ma è sempre una riflessione nata da alcune fotografie.

E dagli sguardi.

Altra cosa strana gli sguardi delle persone.

Mi è capitato di tirare fuori delle vecchie fotografie, risalenti al 2010\11.

Dovendo partecipare ad una mostra fotografica sulla breakdance ho aperto gli archivi, scovando delle fotografie fatte in quegli anni.

Ogni volta che guardano le proprie fotografie accade sempre qualcosa dentro di noi. Perché esse sono le tracce visibili dei nostri mutamenti.

Ho già scritto dell'emozione che ho provato a trovare le mie prime fotografie, delle Filippine o dei primi ritratti alla comunità del Bangladesh.

Queste cadevano nello stesso periodo, in cui mai avrei immaginato il me stesso di ora.

Ancora a metà strada tra il vecchio lavoro e la pulsione folle di lasciare tutto e abbracciare solo il cammino della fotografia.

Mi ritrovai per due giorni in compagnia di questi danzatori di breakdance provenienti da mezzo mondo, America, Marocco, Polonia, Francia...

Seguendo e documentando gli esercizi del giorno prima in palestra e il contest il giorno dopo.

Io non conoscevo loro e loro non conoscevano me.

Però, in questi casi, trascorrere ore e ore insieme abbatte ogni distanza.

Non dico che si diventa amici, perché è una parole importante, però si creano dei legami invisibili e indefiniti.

Ognuno in posa davanti la mia lente in modo diverso, secondo il proprio stile e carattere.

Vedendo quelle fotografie e quei ritratti non riesco a ricordare perfettamente, non come qualcosa che mi è successo due anni fa in Malesia o l'anno scorso in Bangladesh.

Anche andando indietro di cinque anni, ci sono momenti che ricordo con più intensità e dettagli.





   


Però, però...

Rivedere i loro sguardi su di me fa smettere al tempo di essere un filo di perle, ma diventa un filo perso nel gomitolo intricato della mia esistenza.

I loro occhi mi fanno ricordare, rivoltando la mia attenzione su ciò che ero, quanto piacere provavo a sudare e stancarmi con loro.

È un senso di intimità così forte che sembra di provarlo ancora, in questo momento, con la stessa intensità.

Ognuno di noi ha provato cosa intendo.

Non è ciò che è accaduto un mese prima che è più potente di ciò che è accaduto dieci o venti anni fa.

Una carezza della propria madre a dieci anni dopo essere caduti e feriti ad un ginocchio può avere un ricordo nitido e profondissimo più di un premio importante che abbiamo ricevuto una settimana fa.

 

Il tempo è un gomitolo in cui è andato perso il filo, al suo interno.

Siamo noi che diamo senso a quel filo.

E due occhi che ci guardano, sorridendo, da una fotografia, spesso possono tirare fuori il capo di quel filo, consegnarlo alle nostre dita.

Per ricordarci chi eravamo. E chi siamo diventati.

 

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