Il Gioco delle Immagini


© Fabio Moscatelli
© Fabio Moscatelli

Ascoltare un grande amico e professionista come il fotografo Dario De Dominicis presentare il suo nuovo corso a Officine Fotografiche è sempre un piacere.

Ero curioso di capire come impostava il corso e perché, comunque, ho grande stima di lui, ed infatti mi ha dato modo di pensare.

Rispondendo ad una domanda sull'importanza dell'editing in fotografia, Dario accennava agli inizi della fotografia, ai primi esperimenti di immagini in movimento che segnarono il confine tra il mondo precedente della pittura e quello che verrà poi con il cinema: il cambiamento radicale del nostro modo di concepire la visualità.

Anche se la storia del cinema è segnata dai lavori pionieristici del Kinetoscopio di Thomas Edison e del cinematografo dei Fratelli Lumière, o come il celebre “Viaggio nella Luna” di George Méliès del 1902, ci fu tutto un fermento creativo precedente fatto di esperimenti che viene chiamato “Precinema”, in cui – proprio grazie alla Fotografia – si tentava di mettere in movimento ciò che prima era solo una esposizione di quadri dipinti singoli appesi ad una parete di un museo.

Va ricordato, nel 1872, l'uomo d'affari e governatore della California Leland Stanford che chiese a Eadweard Muybridge di confermare una sua ipotesi, ovvero che durante il galoppo di un cavallo vi era un istante in cui tutte le zampe erano sollevate da terra. Il 19 giugno 1873, Muybridge fotografò con successo un cavallo da corsa chiamato “Sallie Gardner” utilizzando 24 fotocamere, sistemate parallelamente lungo il tracciato, e ogni singola macchina veniva azionata da un filo colpito dagli zoccoli del cavallo ogni 21 centimetri per coprire i 20 metri di estensione della pista, e le foto venivano scattate in un millesimo di secondo.

Quel cavallo al galoppo fu uno dei primi “racconti visivi” in movimento.

Da là poi il celebre treno dei fratelli Lumière che fece scappare terrorizzato il pubblico del primo cinematografo, come se le immagini in movimento fossero il fuoco ancestrale degli uomini primitivi.

 



 

Dario ha parlato del cinema perché ha collegato l'editing in fotografia alla sceneggiatura di un film, citando un libro che lo aveva colpito molto, “Estetica del montaggio” di Vincent Amiel.

Sottolineando come noi siamo condizionati, dalla nascita, da un certo tipo di lettura cronologica di ciò che vediamo.

In pratica ragioniamo come la Gestalt aveva teorizzato negli anni Venti in Germania, un cerchio si associa ad un altro cerchio così come un rettangolo ad un rettangolo e così via, come sa chi ha studiato la Psicologia della Percezione.

Ed è qui che fa un esempio interessante.

Proprio sull'argomento di come si fa un editing in fotografia, dicendo come per noi sia scontato ragionare in un determinato modo osservando una serie di immagini su un tema ampiamente codificato come può essere una giornata di un matrimonio.

Se c'è l'immagini degli sposi in chiesa e quella della donna in accappatoio, è scontato che se le mettiamo in sequenza la donna in accappatoio non verrà di certo dopo la scena degli sposi in chiesa, perché ovviamente è la scena della mattina in cui lei si prepara per indossare l'abito con relativo shooting fotografico.

È qui che qualcosa si sveglia in me, avanzando dalle nebbie di un passato mentale che non mi abbandona mai. Un dáimōn che mi sussurra  nell'orecchio di tanto in tanto.

E perché? Non potrebbe essere invece giusta quella sequenza? Non potrebbe essere lei che esce dalla doccia a fine della giornata di matrimonio dopo la prima notte di nozze?

E il demone assume – piano piano – le sembianze del volto di Ludwig Wittgenstein, mio alter ego dai tempi della tesi di laurea.

 

Ancora ricordo quando il mio professore di Estetica all'università, caro Di Giacomo, per spiegarci le “Ricerche Filosofiche” disegnava su una lavagna una linea retta diagonale su cui era posato un omino stilizzato.

 



“Che sta facendo?”

E tutti noi, in coro: “Sta salendo il crinale di un monte!”

“E chi lo dice?” rispondeva il professore, “Non potrebbe invece stare scivolando all'indietro su quel crinale?”

Ebbi in quel periodo ciò che i greci chiamavano agnizione, la rivelazione della vera identità di qualcuno o qualcosa. Da allora Wittgenstein sarebbe entrato nel mio sangue, e poche sono state le gioie intense nella mia vita come la lezione che feci davanti a oltre trecento giovani studenti di Lingua Malese all'Università in cui ho insegnato per due anni a Penang, in Malesia, sull'importanza di Wittgenstein nella Filosofia del Linguaggio.

E chi l'avrebbe mai solamente sognata una scena così...

 

Direte voi, ma che c'entra questo con la Fotografia?

Che c'entra l'editing con colui che vedeva in un disegno una testa di lepre oppure un'anatra?



Ma è proprio qui che emerge la difficoltà di fare un editing, di mettere in una sequenza una serie di immagini distinte: perché la fotografia è strettamente legata al linguaggio, essendo essa stessa linguaggio (visivo).

Perciò si porta dietro gli stessi problemi e ombre rivelate in modo spietato dal filosofo austriaco nel nostro linguaggio quotidiano.

 



Il problema di mettere in una sequenza le immagini è che, a differenza del cinema che unisce in un unico atto dinamico e continuo quelle immagini, senza spazi, le fotografie invece rimangono intervallate da spazi di vuoto e silenzio. Ed è proprio là che Wittgenstein ha ribaltato drasticamente tutto il suo pensiero filosofico dal primo Tractatus logico-philosophicus alle Ricerche Filosofiche, rivoluzionando l'intera storia della linguistica.

Perché se prima la visione era chiara e radicale: il mondo è nel nostro linguaggio, il significato è nel significante delle parole e di tutto ciò di cui non possiamo parlare dobbiamo tacere, non esiste.

Così ogni fotografia singola ha il suo significato chiaro e la logica del linguaggio impone un ordine che non può essere altrimenti sennò cade fuori dal “senso” e cessa di esistere.

Ma poi ha fatto un passo avanti, rivedendo tutto ciò che aveva teorizzato.

Affermando che la nostra comprensione del linguaggio – e quindi della realtà – non avviene tanto nelle parole ma nell'uso che ne facciamo.

Il linguaggio è un “gioco”, in cui subentrano cultura, emozioni, esperienza, storia privata. E dove vanno a cadere tutte queste aggiunte?

Negli spazi vuoti appunto, nei silenzi tra una parola e un’altra.

Il significato di una frase sta proprio in quegli spazi che noi riempiamo del nostro senso. Perché una logica matematica non è possibile da applicare al linguaggio, così come è impossibile per la fotografia.

L'omino sul crinale della montagna è sempre in salita come in discesa.

 

Anzi, è proprio nella sua ambiguità che sta il fascino dei linguaggi, nella nostra capacità di dotarli di senso.

Perché niente è dato per definitivo e categorico; e questo è anche il motivo delle nostre incomprensioni, d'altro canto.

Quindi è come noi facciamo “uso” delle immagini che ne determina il suo significato, non le immagini in sé stesse, proprio come le parole nel linguaggio.

È il gioco che ne facciamo.

Questo è evidente, ovviamente, per immagini di natura più simbolica e allegorica.

Come questa fotografia del mio amico Fabio Moscatelli che potrebbe essere speculare alla mia.

 

© Fabio Moscatelli
© Fabio Moscatelli

© Stefano Romano
© Stefano Romano

Due punti di colore su uno sfondo scuro.

Una farfalla bianca che vola e una bambina con un palloncino arancione.

È possibile leggerle come un segno di speranza, una punta di luce in volo in fuga dall'oscurità, che sia tristezza o un male generico.

Un modo visuale di far respirare e dare speranza a chi la osserva.

Però potrebbe anche essere l'attimo prima in cui quel magma nero si chiuda su di loro, li ingoi e li faccia sparire per sempre. Anche perché la parte oscura è predominante, è satura, compatta – noi siamo in grado di vedere quella piccola farfalla e il palloncino arancione proprio grazie alla trama spessa del nero e dell'oscurità.

 

Ma questo non vale solamente per immagini così simboliche. Si può applicare a ogni tipo di fotografia.

Prendiamo ad esempio alcune fotografie iconiche e ben conosciute.

Iniziamo dalla celebre “Pietà del Ventesimo Secolo”, l'immagine icona di Eugene Smith, scattata nel villaggio di Minamata ne primi anni Settanta.

 

© W. Eugene Smith
© W. Eugene Smith
 

Tutti sanno che in essa è ritratta la bambina Tomoko mentre fa il bagno tra le braccia della madre, deformata dagli scarichi tossici di mercurio riversati in mare dalla Chisso Corporation.

Noi lo sappiamo perché fu lo stesso Smith a raccontarlo, e proprio grazie ai suoi scatti riuscì a far chiudere la fabbrica.

Ma proviamo a dimenticare le sue parole, guardiamo la fotografia.

C'è la madre che lava con dolcezza il corpo della figlia.

Però potrebbe anche essere che la madre la stia lasciando morire, delicatamente, affogandola per non vederla più ridotta in quelle condizioni, come in una compassionevole eutanasia.

 

Oppure questa altra ben conosciuta foto di Steve McCurry, scattata nel 1996.

Padre e figlia sul lago Dal a Srinagar, nel Kashmir.

E se invece fosse che nello sguardo sperduto e nelle mani congiunte quasi a implorare aiuto ci fosse il tentativo da parte della bambina di farci capire che è stata rapita dall'uomo alle sue spalle?

 

© Steve McCurry
© Steve McCurry

Concludiamo con un fotografo che io amo intensamente, come molti di voi sanno leggendo i miei articoli: Ferdinando Scianna.

I suoi famosi tuffatori di Sant'Elia del 1982.

Ma noi non li vediamo sulla scogliera, non potrebbero invece, in quella posizione, cadere dall'alto, tuffarsi da un elicottero sul mare?

Chi lo può negare?

L'omino sale o scende il crinale del monte?


© Ferdinando Scianna
© Ferdinando Scianna



Ovviamente queste sono ipotesi che potrebbero essere applicate a centinaia di fotografie. Astraendo da tutte le informazioni e didascalie che le ammantano.

Prendiamo, per esempio, le pitture rupestri ritrovate nelle caverne dell'epoca preistorica. Ecco, quelle sì che sono perfette.

Perché noi in quegli omini stilizzati vediamo cacciatori, archi e frecce, ma è la nostra percezione, la nostra visione gestaltica che completa quei tratti essenziali che mai sapremo con certezza cosa abbiano voluto significare all'epoca, nella mente di chi li ha incisi.

E tutto questo discorso è stato fatto riguardo alle immagini singole, figuriamoci alla loro successione in un editing!

 

È un modo per dire di quanto sia complicato fare l'editing in fotografia, quanta competenza e gusto estetico necessiti. Ma questo vale anche nella costruzione di un racconto o un romanzo. Noi smontiamo e rimontiamo continuamente le nostre cronologie narrative, e anche se giungiamo ad una fine, quella sarà sempre la storia giusta in quel momento ma che potrà cambiare dopo un paio di anni.

Sarà sempre una delle tante letture possibili.

 

Ma questo non ci deve scoraggiare. Anzi.

La Fotografia può diventare un gioco interpretativo ma – giocando – ci aiuta a comprendere meglio noi stessi.

 

Un grazie ancora a Dario De Dominicis per aver dato l'abbrivio a questa mia lunga riflessione.

 

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