“Il dolore è una presenza inaspettata che decide per noi.” (Franscisco Mele)
Nur Huda. HUSM, Kota Bharu. Kelantan, 16 Giugno 2019 |
Io avevo già deciso il tema di questa penultima storia, volevo parlare dei mercati, che sono tra i luoghi che amo di più a livello umano e fotografico, avevo anche già scelto le fotografie.
Però sentivo di avere un debito. Per diversi motivi. Un debito verso una persona che non c'è più.
Per fare questo devo tornare a parlare di
Kelantan.
Questa storia è legata al mio lavoro in
Malesia, ovvero la realizzazione del libro fotografico per i 50 anni
dell'Università USM e, dovendo documentare ogni loro attività, fui spedito a
Kota Bharu, per due volte, dove c'è l'ospedale di proprietà dell'università:
l'HUSM.
Ci sono stato nel 2018 appena arrivato in Malesia e poi nel
2019.
Io di solito non entro con piacere negli
ospedali, ma chi è che lo fa? Non solo per il luogo in sé, ma perché ci ho trascorso
molti anni dentro, soprattutto da bambino.
Appena sono nato ho dovuto affrontare
un'operazione al cuore per un soffio, un buco nel cuore, che rendeva la mia
pelle di colore giallo, scambiato da tutti i dottori per itterizia; ma sotto
l'insistenza di mia madre, la quale sentiva che era qualcosa d'altro, un
dottore fece altre analisi più approfondite per scoprire che mia madre aveva
ragione: sono stato tirato per i capelli alla vita.
Ogni volta che ho chiesto a mia madre come
aveva fatto a capire che era qualcosa di più grave lei mi rispondeva: “Solo una
madre lo sa.”
Da quel momento non ho mai smesso di
cercare di indagare questo legame magico e misterioso tra madre e figlio che
nessun uomo potrà mai comprendere.
Poi a dieci anni ci fu un'altra operazione
al cuore, per la restrizione dell'aorta, e l'appendicite. Insomma, la mia
infanzia è stata un entrare e uscire dagli ospedali, tra interventi chirurgici,
check-up, analisi del sangue.
E il mio corpo aggiungeva cicatrici a
cicatrici.
All'impossibilità di avere una vita sociale
e fisica come tutti i bambini (a pallone giocavo come portiere perché non
potevo correre) mi ripiegai sullo studio, la lettura e il disegno. Leggevo e
scrivevo tantissimo.
La fine del mio cammino universitario, alla
facoltà di Lettere e Filosofia, fu anche la fine simbolica di quella prima
parte della mia vita: la mia tesi di laurea portava il titolo “La riflessione
filosofica-psicologica sul corpo”, nel 2000, e la dedicai ai miei genitori, per
tutto quello che avevano sofferto per me.
In questa tesi ci misi dentro tutte le mie
passioni e gli anni di letture, dalla psicologia alla filosofia.
Principalmente, fu la mia via personale di indagare su quello che avevo provato
negli anni dell'ospedale; volevo dare un nome al dolore.
Perché una delle certezze su cui si fonda
la psicologia e la psicoanalisi è proprio quella per cui il primo passo per
combattere le nostre paure e nevrosi è dargli un nome. Dare un nome significa
conoscere ciò che è dentro di noi e dunque iniziare a combatterlo; ciò che non
ha nome rimane nell'ombra e ci sconfigge – non a caso il termine follia deriva
dal latino “follis” che significa mantice, otre, recipiente vuoto e
rimanda all'idea di una testa piena di aria (appunto senza niente dentro che
possa essere nominato).
Perciò io scrissi sulle malattie
psicosomatiche, su come il corpo diventa la nostra forma di espressione e
linguaggio del dolore nel momento in cui la nostra mente, per qualche motivo, è
bloccata o impossibilitata nel farlo. I libri su questo argomento sono molti, e
viene studiato da diversi punti di vista: medico, antropologico, psicologico,
filosofico ed estetico.
In realtà, più che una tesi di laurea fu
una sorta di diario privato.
Il fulcro di tutto era e rimane il nostro
corpo, con cui interagiamo con il mondo, con cui dialoghiamo ed esprimiamo il
nostro essere.
E la malattia è l'attacco al corpo, e
rappresenta una sfida al potere della medicina e della razionalità, perché
dichiara il loro fallimento con il dolore e la morte.
“Nel mondo della medicina il corpo si
costruisce ex novo come “corpo medico” che è altra cosa dai corpi con cui
interagiamo ogni giorno.” (B. J. Good)
La medicina, nell'epoca moderna, ha
sostituito in parte il potere della religione e della sua capacità di alleviare
il dolore. Il filosofo Gadamer cita, in merito, il mito di Prometeo, per cui
non è tanto nel dono del fuoco all'umanità la sua grandezza piuttosto
nell’avere sottratto all'uomo la conoscenza dell'ora della morte: “La rimozione
della morte è la volontà di vivere” (H. G. Gadamer).
Questa è sempre stata la sfida della
malattia all'umanità. Attraverso il dolore la nostra presenza arretra, si
difende e si chiude in sé.
Il malato “dimora in sé”, lontano dal
mondo, attento solo alle ragioni del proprio corpo dolente, di più, il corpo
diventa, per il sofferente, il mondo, ma un mondo estraneo.
Con la mia tesi di laurea io misi un punto
a tutto il mio passato, abbandonando la scrittura e le cicatrici. Quello che
nella religione della Grecia classica si chiama catarsi, ovvero il rito
magico di purificazione dell'anima e del corpo, e che la psicoanalisi
riprenderà più avanti per definire il processo di liberazione da esperienze
traumatizzanti o conflittuali del passato.
Iniziai tutt'altro lavoro e poi venne la
fotografia.
Ma al destino non si sfugge. Mai avrei
immaginato che quelle pagine non erano un resoconto del mio passato ma un
preludio al mio futuro, perché nel 2005 mi ammalai di un tumore maligno e
aggressivo. Proprio perché la mia mente era intenta a soffrire per questioni
sentimentali senza ammetterlo a me stesso. Lo fece il corpo per me, quasi
uccidendomi. Ma io mi attaccai con le unghie e i denti alla vita; non è facile
eliminarmi.
Ma il dolore che provai fu inimmaginabile,
e comunque il dolore che si prova appena nati o a dodici anni non si può
ricordare. A trenta sì.
Per questo motivo, quando nel 2012 mi fu
proposto dal reparto di Pediatrica Oncologica dell'ospedale Umberto I di Roma
di fare un reportage fotografico sulla vita delle famiglie che vivono nei
reparti con i bambini malati di tumore, io accettai.
Dovevo lavare la mia anima.
Ma fu un errore. Un conto fu parlare con i
genitori e dargli un supporto morale o fare ridere i bambini intubati, altra
cosa era arrivare una mattina e sapere che la tua bambina preferita, la piccola
Bethanie di otto anni, del Congo, era morta la notte prima, senza neanche
riuscire a dirle “ciao”.
Smisi di andare, e di quelle foto non ci ho
mai fatto nulla. Sono mie.
Me and Bethanie (R.I.P.). Roma, 18 Novembre 2012 |
La prima volta che sono arrivato all'ospedale in Kelantan ci ho messo un bel po' a visitarlo tutto, è enorme. Agli ultimi piani di un blocco c'è la sezione pediatrica e, all'ultimo piano, quello più vicino al cielo, c'è Oncologia Pediatrica. In questi due piani ho conosciuto delle madri fortissime, come accade sempre in questi luoghi, come lo fu mia madre.
HUSM, Kota Bharu. Kelantan, 7 Agosto 2018 |
Non smetterò mai di ringraziare il destino di avermi fatto conoscere Rashidah, una giovane madre di Kuala Besut, in Terengganu, che assiste da diciotto anni suo figlio Muhammad Zulhilmi bin Zamri malato di paralisi cerebrale, dormendo e vivendo con lui nella stanza dell'ospedale, con il marito che le porta il cambio dei vestiti ogni tanto, ma sempre con il sorriso sule labbra. La prima volta che mi raccontò la sua storia mi disse che lui era il suo unico figlio e che era un dono. Quando sono tornato l'ultima volta lei era ancora là, e le ho regalato una copia del libro in cui ci sono anche le sue fotografie e di suo figlio, e tuttora ci sentiamo spesso.
Rashidah con suo figlio. HUSM, Kota Bharu. Kelantan, 5 Agosto 2018 |
Io con Aziane e Rashidah. HUSM, Kota Bharu. Kelantan, 24 Giugno 2019 |
Ho conosciuto il piccolo “Tarzan” e sua madre Haslina, selvaggio e simpaticissimo, Emy con la dolcissima Nur che ama il disegno e gli unicorni, Sue, Nur Ayati, Ain...
Tarzan, Haslina e me. HUSM, Kota Bharu. Kelantan, Giugno 2019 |
Emy e Nur, con un'altra madre e suo figlio durante una visita. HUSM, Kota Bharu. Kelantan, 18 Giugno 2019 |
Io, Nur, Emy con un'altra madre e suo figlio. Kelantan, 21 Giugno 2019 |
Ma ho fotografato anche il piccolo Muhammad Aisy Iman, morto a 5 anni e 7 mesi il 2 agosto del 2019, dopo cicli di Ice chemioterapia che brucia la pelle e la rende nera.
Muhammad Aisy Iman (R.I.P.). Kelantan, 19 Giugno 2019 |
Ma questa storia è dedicata a qualcun
altro, ad una fotografia che non c'è, o meglio, lei è là ma voi non potete
vedere il suo volto, solo i suoi occhi:
Nur Huda, una bambina di Kuala Besut di 15 anni dal volto bellissimo.
Lei era nel letto a fianco a Tarzan, e
mentre io scherzavo con lui guardavo lei. Ogni giorno che sono stato in quello
stanzone lei non ha mai sorriso. Era con sua madre, sempre con la stessa
espressione persa nel vuoto; qualsiasi cosa io facessi i mei occhi la cercavano
sempre, erano calamitati da lei, le ho anche accarezzato il viso, ho provato a
parlarci ma niente, al limite lei mi guardava un attimo e basta, e tornava a
guardare davanti a lei. Uno strazio. Il tumore era al cervello.
Sono stato là per una settimana, ogni
giorno entravo e la cercavo subito, con il terrore e il trauma di Bethanie.
Ogni mattina tiravo un sospiro di sollievo. Lei c'era.
Poi sono tornato a Penang, ho completato il
libro, scegliendo le fotografie e lavorando all'editing.
A ciò che sto per raccontare adesso voi
potete non crederci, non mi interessa. Lo confessai anche ad alcune persone a
me care, tra cui Aziane, la mia cara amica e responsabile delle infermiere del
reparto di pediatria a cui devo molto, soprattutto per il suo aiuto durante
questi giorni e nella stesura del libro per le didascalie.
Quando ero a Penang io non riuscivo a
dimenticare lo sguardo di Nur Huda, la sua sofferenza silenziosa, composta. E
lei venne da me.
Sentivo la sua presenza nella mia stanza;
un giorno, mentre ero disteso sul letto ho sentito toccare le mie gambe e i
piedi, sapevo che era lei, anche nei miei sogni veniva. Io ero arrabbiato con
lei e impaurito.
“Lasciami in pace! Vai via!” le urlavo.
Poi parlai con il mio editore ad USM, e con
quello in Indonesia, che mi conoscono benissimo, e con Aziane. Ho iniziato a
capire che lei non voleva farmi paura, non voleva niente. Desiderava solamente
che la ricordassi. Perché in fondo io ero stato
come lei.
Dopo qualche giorno Haslina, la madre di
Tarzan, mi mandò un messaggio: Nur Huda era andata via, il 27 luglio del 2019.
Chiesi conferma anche ad Aziane, era vero.
D'accordo con l'editore Puan Awatif ho
dedicato a lei la sezione finale del nostro libro, quella relativa al reparto
di Oncologia Pediatrica.
E adesso io dedico a lei questa storia.
Kelas Sekolah Rendah HUSM (Lezione nella scuola dell'ospedale per i bambini malati). HUSM, Kota Bharu. Kelantan, 19 Giugno 2019 |
Il problema della malattia è come
raccontarla, ed io ho studiato a lungo che è proprio il linguaggio che aiuta ad
alleviare il dolore, la malattia va “narrata”. Eppure, proprio il dolore
è impossibile da raccontare, è indicibile: distrugge il nostro mondo e il
nostro linguaggio.
Non ci sarà mai nessun scrittore al mondo
in grado di descrivere il dolore, così come la morte, non è possibile
raccontarla.
Il dolore possiamo solamente provarlo per
conoscerlo; la morte, invece, non la si può narrare perché a noi è dato
conoscere solo la vita.
Gli occhi persi nel vuoto di Nur Huda. Le
sue labbra aperte ma mute, erano l'espressione della sofferenza che non ha
parole, del corpo che si è ritirato dal mondo, è solo con sé stesso in attesa
che tutto finisca, perché quella pena ha una sola fine, e lei lo sapeva. A 15
anni, lo sapeva; i suoi occhi avevano un'intensità difficile da sostenere, che
poche donne mature hanno, perché non hanno mai provato che significa soffrire
in quel modo.
Lei mi ha ricordato due cose: la prima è
che io sono sopravvissuto, anche a lei, sono maledettamente ancora qui mentre
lei non c'è più, e per questo io le sono in debito. Secondo, mi ha ricordato
che il dolore che qualcuno prova può fare finta di ignorarlo, puoi nascondere
le cicatrici con i vestiti affinché nessuno le veda: ma sono là, dolore e
cicatrici.
HUSM, Kota Bharu. Kelantan, Giugno 2019 |
E questo è l'insegnamento che vale per ognuno di noi, per vivere al suo posto, per tutti quelli che sono andati via troppo presto come lei. Ogni santo giorno, ogni mattina che aprite gli occhi, vivete al massimo che potete: leggete, camminate, guardate, respirate, sorridete, amate.
Non date per scontato niente, ogni parola
che pronunciate o un dito che muovete, un battito di palpebre... Ciò che è la
banalità in questo momento per Nur Huda è stato, nei suoi ultimi giorni, un
tormento continuo, una battaglia che ha perso.
Poi voi fate come volete, la vita
appartiene a voi.
Io il mio debito l'ho pagato, e se Nur Huda
vorrà tornare a trovarmi nella mia stanza io ci sarò, non ho più paura.
Lei è sempre con me, tra le mie cicatrici, a fianco a Bethanie.
“Le malattie sono per l'uomo la strada più breve per tornare a se stesso.” (Thomas Bernhard)
Il mio omaggio più grande e un grazie di cuore alle fantastiche infermiere che lavorano con dedizione ed amore, ogni giorno. Grazie anche da Nur Huda... HUSM, Kota Bharu. Kelantan, 24 Giugno 2019 |
Luigi M. Lombardi Satriani, Mariela Boggio, Francisco mele: “Il volto dell'altro. Aids e immaginario” (Meltemi,
1995)
Byron J. Good: “Medicine, Rationality, and Experience: An Anthropological Perspective” (Cambridge University Press, 1994)
“Perché il corpo. Utopia, sofferenza, desiderio” a cura di Mariella Pandolfi (Meltemi, 1996)
Umberto Galimberti: “Il corpo” (Feltrinelli, 1997)
Giancarlo Trombini Franco Baldoni: “Psicosomatica” (Il Mulino, 1999)
Joyce McDougall: “Theaters of the Body” (Free Association Books, 1989)
Hans-Georg Gadamer: “Dove si nasconde la salute” (Raffaello Cortina Editore, 1994)
Thomas Bernhard: “Perturbamento” (Adelphi, 1999)
Canzone consigliata: Sigur Ros “Svefn-g-englar”
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