Eraclito e la sedia vuota

“Una stessa cosa, dentro di noi, sono vivente e morto,
e desto e dormiente e giovane e vecchio:
questi, rovesciandosi, sono quelli, e quelli a loro volta invertendosi sono questi.”
(Eraclito, fr.95)
 

Heraclitus
Eraclito

In questi giorni ho preso la decisione di andarmi a cercare il libro di Eraclito. Come mi disse, all'epoca, il mio caro insegnante di Letteratura Italiana dell'università, “caro Stefano, certi libri, alcune letture, necessitano del loro tempo”. L'ho sempre trovata una saggia affermazione.

I libri rimangono sempre gli stessi, siamo noi che mutiamo nel tempo, e ciò che sembrava incomprensibile allora può diventare limpido adesso. Al contrario, ciò che ci appassionò un tempo può risultare noioso o enigmatico nel nostro presente. Perché noi cambiamo. Ogni attimo della nostra esistenza.

Certe letture sono come delle grandi forme di formaggio a riposo, per anni, nelle cantine della nostra anima. Arriva un momento che possiamo scendere a degustarli. Hanno raggiunto la loro maturazione.

Leggere Eraclito è semplice. Capirlo è un'impresa.

Non a caso Aristotele lo chiamò “l'Oscuro”. Anche Socrate aveva difficoltà a comprendere cosa intendesse nei suoi frammenti “profondi come le acque dell'isola di Delo.”

 

Non era un tipo facile il filosofo di Efeso, e ben poco si sa della sua esistenza. Sebbene egli discendesse da una famiglia di nobile origine, non era per niente interessato né alla fama né al potere né alla ricchezza.

I desideri umani portano ad ambizione ed invidia, lui invece – come un monaco zen – preferiva una vita semplice: un'alimentazione vegetariana, rifiuto dei beni materiali e una vita solitaria nel tempio di Artemide.

Scriveva appositamente in modo oscuro affinché solo i pochi meritevoli avrebbero compreso il suo pensiero.

 

Sulla sua morte poi ci sono varie versioni, si sa per certo che si ammalò di idropisia, una sorta di edema, ovvero l'accumulo del liquido sieroso in una cavità del corpo. Proprio lui, che beffa!

Ammalato per eccesso di acqua colui che vedeva nel Fuoco il principio di tutte le cose.

“Questo cosmo non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini, ma sembra era, ed è, e sarà, Fuoco sempre vivente, che con misura divampa e con misura si spegne” (fr. 2)

“sapiente è il fuoco” (fr.7)

“il Fuoco verrà e si impadronirà di tutte le cose” (fr.8)

 

Invece no, niente fuoco che brucia l'umidità che rende molli e ignoranti gli esseri umani. Bensì edema. Così sarà costretto a chiedere ai medici dell'epoca se fossero capaci “di far sì che dall'inondazione venisse la siccità; e poiché quelli non lo comprendevano, si seppellì in una stalla sotto il calore dello sterco animale, sperando che l'umore evaporasse.”

 

Sulla sua morte esistono cinque diverse versioni, ma il comune denominatore è lo stesso: morì sotterrato dallo sterco di mucca. Forse a sessant'anni.

Una fine tragi-comica per uno dei più importanti pensatori dell'umano sapere.

Noto a tutti per quei famosi frammenti sul fiume e l'acqua che scorre (che non erano neanche suoi) Eraclito è comunemente passato alla storia come il “filosofo del divenire” legato al motto «tutto scorre» (pánta rhêi, in greco πάντα ῥεῖ), che in realtà è probabilmente da attribuirsi al suo discepolo Cratilo che svilupperà il pensiero del maestro, estremizzandolo. Inoltre, la formula lessicale “panta rei” verrà coniata ed utilizzata la prima volta da Simplicio. 

L'origine di tale affermazione è legata all'aforisma eracliteo n. 91:

“Non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell'impetuosità e della velocità del mutamento essa si disperde e si raccoglie, viene e va.”

 

Su questo tema scrisse altri frammenti, dal 28 al 31.

Il tema è sempre lo stesso, quello del continuo nascere degli oggetti dell'esperienza senza nessuna permanenza possibile: ogni cosa che noi percepiamo è e non è allo stesso tempo, come le acque del fiume che scorrono sempre diverse nel fiume che rimane lo stesso.

Il fiume, così come il sole, e come ogni oggetto che noi percepiamo non sono mai gli stessi. La loro identità immutatole è solo apparenza ingannevole. Così come gli oggetti, anche noi – oggetti nel mondo – siamo e non siamo.

Per questa visione della realtà Eraclito è stato da sempre avvicinato alle filosofie orientali, specialmente quelle buddiste.

Del resto, le relazioni tra India e Grecia furono certe grazie agli scambi commerciali tra India e Babilonia, così come la vicinanza tra Babilonia e la Persia, perciò Eraclito non ignorava i testi sacri dei Veda e Upanishad.

Molti sono stati gli studiosi, tra cui il filosofo Heidegger, che hanno considerato Eraclito il più “orientale” dei nostri antichi filosofi.

 

Non voglio, di certo, tenere una lezione di filosofia.

Pensavo come solo dopo avere letto i testi della tradizione indiana diventassero più intellegibili le parole di Eraclito.

All'epoca dei miei studi universitari mi sembrava di leggere geroglifici.

Il cervello a vent'anni è più agile e recettivo ma l'esperienza dei quarant'anni è tutta un'altra cosa.

È facile cadere affascinati da quell'acqua che scorre, rimanendo sempre fiume ma essendo sempre diversa da sé stessa. Così come noi che bagniamo il nostro piede in quelle acque.

Anche noi mutiamo ogni istante della nostra vita. Ogni tasto che premo per scrivere scandisce il divenire dello Stefano che è e non è più nello stesso istante.

 

Ma perché proprio ora?

Sembra privo di senso, ma tutta questa riflessione – e il desiderio di andarmi a comprare il libro di Eraclito – è nata dopo avere incontrato una vecchia fotografia.

La foto dei nonni paterni di mia madre, quando scrissi a proposito della sua infanzia. Un'immagine di marito e moglie nella Sardegna di fine Ottocento; in piedi, con una sedia vuota davanti a loro.

Quell'immagine mi perseguita. Appena posso, torno ad osservarla.

Mi fa pensare al concetto di tempo.

 

My mother's paternal grandparents. Sardinia, around the end of 1800.
Nonni paterni di mia madre. Sardegna, fine 1800 circa.


Io credo, come Ferdinando Scianna, che la Fotografia sia una riflessione sul tempo, non solo sul visibile. Più di ciò che vediamo, in fondo, la fotografia ci parla del tempo.

E il tempo della fotografia scorre in modo diverso da come noi lo intendiamo abitualmente.

 

“Il tempo di un quadro è il tempo interno al pittore, che può decidere di ritrarre un evento che è già avvenuto nel passato.

La novità della fotografia è che non è soltanto una fetta di visibile, è anche una fetta di tempo.” (Ferdinando Scianna)

 

Io torno a pensare spesso all'idea del tempo. Credo sia una mia ossessione degli ultimi anni, forse perché inizio ad avvertire il suo scorrere impetuoso come il fiume di Eraclito.

E la passione per la fotografia lo ha acuito.

 

Torna utile il bel libro, citato più volte in questo blog, di Riccardo Panattoni, “Black out dell'immagine – Saggio sulla fotografia e gli anacronismi dello sguardo”. Anche in questo saggio, come in molti scritti di Scianna, il tema del tempo è preponderante.

Anzi, come Panattoni scrive nell'introduzione al saggio, il fascino della fotografia sta proprio nell'epifania delle immagini all'interno del nostro occhio, così come all'interno degli specchi della macchina fotografica:

“L'immagine, emergendo dal fondo di questo luogo imperscrutabile, è il risultato silenzioso di ciò che non siamo riusciti a vedere. Per questo, probabilmente, le immagini portano in sé qualcosa che incanta. Le fotografie, infatti, non sono un luogo di conoscenza, certo possono essere anche questo, possono mostrarci ad esempio luoghi in cui non siamo mai stati, persone che non abbiamo mai incontrato, dettagli che ci sono sfuggiti, ma ciò che in realtà mostrano è come l'immagine sia intrisa della temporalità che caratterizza il rapporto costitutivo tra memoria, oblio e sguardo.”

 

Prima che la fotografia fosse inventata gli esseri umani avevano solo la memoria dello sguardo. Poi le fotografie sono diventate la sopravvivenza della memoria di ciò che conosciamo o di ciò che non abbiamo mai visto.

Anche se le persone e gli oggetti spariscono nel tempo, escono dalla nostra memoria (che è stata sempre l'altra parte del tempo, come insegna il filosofo Bergson) e quindi dal nostro sguardo, basta guardarle in fotografia ed esse tornano ad esistere.

Panattoni scrive che le fotografie sono molto simili alle statue, più vicine a sculture di luce che non alla classica scrittura di luce (come vuole il significato del suo nome).

“Come le sculture mostrano infatti l'effettività di un evento, ma preso all'interno di una solitudine inaggirabile, rimangono per sempre separate dal fluire del tempo pur essendo esse stesso tempo.”

 

Ecco che si torna ad Eraclito. Spiegato in questo saggio proprio grazie al mistero del tempo nella fotografia dovuto alla doppia esposizione della luce che ogni fotografia mantiene in sé: quella della luce che fu nel momento dello scatto e quella che appare di nuovo quando noi guardiamo quell'immagine.

 

Sembra proprio di essere davanti al fiume del filosofo greco. A guardare le sue acque che scorrono. Così come i miei occhi fissano quella sedia vuota, e mi chiedo ma è veramente vuota o sono io che non posso più vedere chi ci è seduto?

Un figlio, il padre anziano di lui, la madre anziana di lei...

 

Che significato ha quella sedia vuota? Nella fotografia tutto è definito, imprigionato nei segni che la luce hanno scolpito sulla carta.

Le espressioni severe dell'uomo e della donna, le loro mani ferme sul bordo della sedia. Sono evidenti come il fiume.

Poi c'è l'acqua che scorre dentro.

I nostri occhi che guardano quell'immagine vi entrano dentro, come nelle sue acque del tempo, e “negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo”. (fr.31)

 

Allora, tutto potrebbe essere un paradosso. Uno scherzo del tempo.

Un collasso dello sguardo che non è in grado di vedere il tempo misterioso della fotografia, che è anche il tempo delle nostre esistenze.

Come se le due figure in piedi fossero il tempo classico, lineare, ferme nel loro passato di fine Ottocento, e quella sedia vuota fosse il simbolo dell'altro tempo, quello più vicino all'idea asiatica del tempo circolare, del tempo che è e non è. Che nega sé stesso mostrandosi a noi.

In realtà c'è qualcuno seduto su quella sedia. Siamo noi che non siamo in grado di vederlo.

 

Come scrive Scianna, “le fotografie nel tempo cambiano esse stesse.”

Anche io penso, come il fotografo siciliano, che sia una falsità quella che le fotografie possano fermare il tempo, come si scrive spesso.

Il tempo che scorre nelle immagini è completamente diverso da come noi lo avvertiamo.

 

No, non sono impazzito.

Questa mia è solo una riflessione, un poco provocatoria, ma che vive nelle parole enigmatiche di Eraclito.

È un modo di pensare al tempo. A come sia difficile afferrarlo o descriverlo.

A volte le cose che sembrano le più complicate sono le più semplici: sono davanti ai nostri occhi.

Questa è l'eredità più grande della filosofia indù-buddista.

I più complicati misteri delle nostre esistenze spesso si riducono a poche parole...

Allora anche una sedia vuota diventa comprensibile.

 

E “il sole è nuovo ogni giorno” (fr. 27)


Eraclito: “Dell'Origine” (Feltrinelli, 2017)
Riccardo Panattoni: “Black out dell'immagine – Saggio sulla fotografia e gli anacronismi dello sguardo” (Mondadori, 2013)


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