Diario d'Infanzia




1981


“Roma, 11 gennaio 1974

Clinica Villa Tiburtina

Eccomi qua per la gioia di mamma e papà, sono nato alle 3 di notte, sono piccolino, peso solo kg. 2.700.

Vengo messo al nido assieme ad 8 maschietti e 1 sola bambina, arrivo piangendo e sveglio a tutti e poi insieme facciamo un bel coro.


12 gennaio

La camera della mia mamma è vicino al nido, lei dentro non può entrare ma ogni tanto mi guarda attraverso una porta a vetri, sono il più piccolo di tutti però dicono che sono il più bello, c'è tanta gente che ci viene a vedere, e ogni tanto ci portano dalle mamme. Quasi tutti i giorni c'è qualcuno che va via e nascono degli altri, io continuo ad essere il più piccolo.


13 gennaio

Il terzo giorno divento un po' giallino sul viso, la mia mamma si preoccupa tanto però il pediatra la assicura che non è niente che fra qualche giorno passa, infatti il quinto giorno guarisco.


15 gennaio

Al quinto giorno io e la mamma andiamo a casa dove ci stanno i nonni e le zie ad aspettarci, e così per tanti giorni c'è quasi la fila per vedermi, tutte le attenzioni sono su di me. Sono un bambino tranquillo, dormo e mangio quasi regolarmente, piango solo dopo la mezzanotte. Dovrei stare senza mangiare sino alle 6 ma i primi giorni non ce la faccio e alle 3.30 reclamo, la mamma mi da la camomilla ma io vorrei il solito latte, ma non c'è niente da fare quindi mi sono abituato ad aspettare e dormo tranquillo sino alle 6.


17 gennaio

Esco per la prima volta, la mamma mi porta in clinica per farmi tagliare il filetto della lingua, perchè ce l'ho attaccato e faccio fatica a mangiare.

Io dormo con i pugnetti chiusi, ad uno appoggio il viso e con l'altro tiro su le coperte finchè non se ne accorge la mamma.

Il cordone ombelicale mi è caduto il giorno 20 gennaio e mamma ha incominciato a farmi i bagnetti a me piace però con una manina mi tengo forte al braccio della mamma.


27 gennaio

Esco per la seconda volta per andare in chiesa dove avviene il mio battesimo, assieme ai genitori, i padrini, i nonni, gli zii e i cugini, piove e fa freddo, andiamo a piedi perchè con la macchina non si può, restiamo in chiesa dalle 12 alle 13. Io piango tutto il tempo sino a quando arriviamo a casa, mangio e poi dormo sino a sera anche se c'è tanta gente che festeggia la mia nascita.”


“Mi chiamo Stefano ma la mamma e il papà mi chiamano “Paciuchino”.


Il mio nome intero è Stefano
ho visto la luce alle ore 3 di notte
a Roma il giorno 11 venerdì
pesavo Kg. 2.700
e misuravo Cm. 50
occhi: azzurri
capelli: biondi”



Mia madre e mio padre negli anni '70 prima che nascessi 



Questo è il diario che ha scritto mia madre dal giorno della mia nascita. Poche pagine. Solo oggi mi è capitato tra le mani, o meglio solo oggi mi sono messo a leggerlo.

Mi ha fatto impressione leggerlo in prima persona, non dalla voce di mia madre ma come se fossi io a raccontare: una tecnica che ho usato spesso nei miei racconti brevi.

Certo, mai avrei immaginato di essere io stesso il protagonista di una storia d'amore scritta da mia madre. Tanto mi ha desiderato che, appena nato, ha deciso che il diario lo avessi dovuto scrivere io, iraccontando i miei primi giorni di vita, come se fossi una piccola celebrità.

Chissà poi perchè ha smesso dopo solo due settimane; forse perchè quell'ittero che al terzo giorno mi rendeva la pelle gialla e che andò via dopo pochi giorni in realtà non era ciò che il pediatra pensava ma era qualcosa di più grave e drammatico. Il primo di una sfortunata serie di problemi che segneranno la mia vita, trascora almeno per un terzo tra visite mediche e ospedali.

Ma è proprio quell'interruzione che mi fa amare questo diario segreto.





Immagino mia madre, a 27 anni, china a scrivere quelle pagine in ospedale e in casa, con la culla vicina da cui spuntano i pugnetti chiusi, ignara di tutto quello che la travolgerà dopo poco tempo.

Come se le nostre esistenze avessero potuto fermarsi, ibernate, a quegli attimi di felicità propri della nascita del primo figlio.

Nel cassetto dove è il diario ci sono pacchi e pacchi di vecchie fotografie e album. Ho la fortuna di essere della generazione in cui i padri scattavano tante fotografie e le tenevano negli album. Adesso viviamo in un cloud astratto in cui collezioniamo migliaia di immagini senza poterne toccare una sola. Mio padre fotografava tanto e sviluppava rullini su rullini mentre mia madre, con rigore certosino, segnava le data dietro ogni fotogragfia.

Prendere quelle vecchie foto in bianco e nero o a colori sbiaditi e sparpagliarle sul pavimento è come quando provi a raccontare dei sogni che sembrano vividi ma poi cominciano a mancare i collegamenti, le immagini e le parole per descriverli. Senti che li possiedi, li ricordi perfettamente appena apri gli occhi ma poi, nella pratica, mancano immagini a parole.

Ovvero, riconosco mia madre e mio padre da giovane, so che sono io quel bambino paffutello con gli occhiali ma non saprei dire niente di quelle immagini.

Vedo il mio sguardo triste, so che ho sofferto molto da bambino, ma sono completamente lotano e distaccato da quella sofferenza, come dalla felicità. Del resto non avrebbe senso vivere decadi rimanendo agganciati a quello che eravamo a dieci anni, così come posso conoscere solo mia madre che è adesso non quella ragazzetta che non mi aveva ancora messo al mondo.

Per questo leggere le righe scritte da lei è come miele poggiato con cura sulle ferite della memoria.

Perché rimanda ad un passato che non esiste per me, perché mi consente di conoscere i suoi pensieri, le sue emozioni, più di una vecchia fotografia. Quel ripetere costantemente che ero il bambino più piccolo ma il più bello che mi riempie gli occhi di calda tenerezza, perché non sono solamente parole scritte ma sono veri e propri simboli grafici di amore materno, equivalenti ad un bacio sulla guancia.


1977


Diventare vecchi significa rivolgersi di più al proprio passato, annaspare spesso con rabbia verso una casa tanto amata che ormai ci ha chiuso per sempre porta e finestre in faccia. E quella casa eravamo noi.

Si diventa archeologi di noi stessi, anche se credo sia molto meglio continuare a vivere il presente senza tormentarsi troppo a cercare quello che ormai è perso sotto tonnellate di sabbia.

Quello che dovevamo fare abbiamo fatto, siamo diventati ciò che siamo.

Per questo motivo si dice che la fotografia ammazza i vivi, proprio perché lo Stefano bambino che mi sorride tra le mie dita non esiste più, se non negli strati di nervi, muscoli e sangue di ciò che sono adesso.

La nostra vita passata potrebbe scrorrere velocissima come una valanga che ci travolge o essere come un rullino ormai scaduto e decoloratoche si svolge lentamente.

Preferisco abbandonarmi a queste poche pagine scritte da mia madre, alla mia voce attraverso la sua voce, intento a fare un bel coro con gli altri neonati.


Quando tutto era ancora possibile.


Grazie mamma.

1979


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