Ancora su Dhaka


“E desidero solo i colori. I colori non piangono,
sono come un risveglio.
...
Ogni nuovo mattino,
uscirò per la strada cercando i colori”

(Cesare Pavese, da “Agonia”)

Dhaka, febbraio 2020

Dhaka mi spezza il cuore.

Non è poi troppo diversa, per certi versi, da Giacarta.

Sono quelle città infinte in cui la vita brulica, freme, nelle vie trafficate come quelle più nascoste – anzi, là la realtà ha un sapore diverso.

A condizione di immergersi dentro senza nessuna percezione di paura, perché la diffidenza rende il sorriso artefatto, un ghigno più che un saluto.

A Giacarta i miei amici mi hanno portato dove nessuno vorrebbe capitarci neanche per sbaglio, sono anche andato sotto il livello dell'asfalto, dove le persone vivono come topi nel buio più totale, insieme ai topi.

Ma mai, per un secondo, ho temuto che mi potesse capitare qualcosa di brutto.

A Giacarta le vie tra le case nelle periferie si fanno così strette che a volte hai paura di rimanerci incastarto in mezzo.

Grattare la superficie ruvida del muro mentre cammini è il modo della città per ricordarti dove sei e che devi portare rispetto.

 

Kolong Tol Jelembar. Giacarta, 11 luglio 2016



A Dhaka le piccole vie sono più larghe, più cupe, fatte di terra più che di asfalto, ma quello che non dimentico mai è il colore.

Se a Roma, nella mia Torpignattara, respiro colore stando immobile a guardare le donne bangladesi con i loro abiti, a Dhaka ero sopraffatto dagli spruzzi di colore che mi circondavano.

Come scrissi anche nel mio libro-racconto di quel viaggio: il colore è la quotidiana battaglia contro la miseria e il grigiore di questa città difficile.

È la speranza che le persone indossano, la resistenza che diventa abito.

Perciò la nostalgia per quella città non è solo per i suoi volti, le storie, le amicizie, ma è soprattutto per il colore. Non mi era mai capitato prima.

 

Dhaka, febbraio 2020


Continuo a credere che sia solo un mio pensiero, che non se ne rendano conto quelle donne che, ogni mattina, hanno il potere di fasciare il loro corpo e la testa con infinite sfumature.

La polvere, lo smog, la terra, non saranno mai in grado di vincere su quei colori.

Lo dimostrano i volti sorridenti nelle sfide che si ripetono uguali ogni giorno, in chi non ha la fortuna di vivere nei grattacieli bianchi e luminosi.

Ma questo è lo stesso a Giacarta come a Manila.

Una lezione che ognuno di noi dovrebbe imparare viaggiando almeno una volta nella vita in questi posti.

 

Dhaka, febbraio 2020


E poi ci sono visioni che incatenano i nostri occhi e le emozioni a quel momento, una sorta di punctum dell'anima, utlizzando un termine fotografico usato da Ronald Barthes per definire quel particolare strambo, inconsueto o caricato affettivamente in una fotografia che rende quell'immagine per noi indimenticabile.

Non riesco a non emozionarmi ogni volta che ripenso e vedo la fotografia di quel bambino che gioca con l'aquilone a Sutrapur, a Old Dhaka.

Ci capitai per caso andando verso lo Shyam Bazar, entrando nel cortile di questo palazzo diroccato che ho scoperto essere poi un ostello dove dormono gli studenti dell'università.

Proprio all'entrata c'era questo bambino che giocava tranquillo, ignorandomi completamente, con lo sfondo la sporcizia e la struttura fatiscente. Come scrissi nel mio libro sembrava essere la metafora visiva perfetta del bakarkhani, il dolce tipici che si trova solo ad Old Dhaka, ruvido e croccante all'esterno ma dolce e fragrante quando lo mordi.

 

Dhaka, febbraio 2020



Mi ha ricodato i bambini che incontrai nel 2014 a Giacarta, nello slum di Petamburan: una fotografia che divenne iconica, al punto che anni dopo un programma televisivo mi chiese di tornare nello stesso luogo per raccontare come nacque quell'immagine.

Che poi raccontava lo stesso del bimbo con l'aquilone, solo che loro avevano i piccioni ammaestrati. Bambini che, tra cumuli di spazzatura, guardavano oltre il fiume i grattacieli e giocavano con i piccioni per farli volare e tornare indietro. Perché se nasci in quei luoghi è difficile spiccare il volo veramente.

Lo stesso quel bambino, intento a provare a far volare quell'aquilone pesante ma con poco spazio per correre.

Petamburan. Giacarta, luglio 2014


I bambini sono come i colori: vibrano di speranza. 

Per me i colori sono sempre stati la cifra stilistica della mia fotografia.

Sono pennellate che lasciano parlare il cuore delle sue spine e dei petali.

Io sono affamato di colori, per questo Dhaka è entrata come uno spillo nella mia pelle e negli occhi.

Lo stesso motivo per cui Torpignattara è il luogo dove vado per far tacere le mie inquietudini.

È la trama dolorosa e perfetta della battaglia furiosa tra la malinconia e la gioia, tra le lacrime e i sorrisi, tra la terra brulla e il salwar kamiz.

 

Come scrive il Poeta baul Kala Shah in “Doyal”:
“O buon cuore
hai trasformato il ferro battuto in oro puro”.

 

Dhaka, febbraio 2020


Non è facile da vedere, ma se chiudete gli occhi, tirate un lungo sospiro, isolate i suoni assordanti dei clacson, delle voci, dei motori, e aprite gli occhi di nuovo vedrete centinaia di piccoli fiumi di colore contagiare la massa greve ed inerme della terra.

Vedrete il colore non solo come elemento estetico, accessorio da indossare, ma come sopravvivenza, speranza, amore.

Non più solo la classica lotta tra il buio e la luce: qui la luce diventa prisma che irradia infinite tonalità e sfumature.

Se riuscirete a vederlo una prima volta non vi abbandonerà più e non potrete non amare questa gente.

Questa città.

Il Bangladesh.

“Al mattino gettai la mia rete nel mare.
Trassi dall'oscuro abisso cose di strano
aspetto e di strana bellezza -
alcune brillavano come un sorriso,
alcune luccicavano come lacrime,
e alcune erano rosse
come le guance d'una sposa.”
(Rabrindanath Tagore, III, “Il Giardiniere”)


Dhaka, febbraio 2020



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