A Milan Kundera


“Sì, se si cerca l'infinito,
basta chiudere gli occhi.”
(M. Kundera, “L'Insostenibile Leggerezza dell'Essere”)


L'11 luglio è morto, all'età di 94 anni, lo scrittore ceco Milan Kundera.

Mi è dispiaciuto molto.

Per le poche persone che ignorano completamente chi fosse, anche se molti avranno citato il titolo del suo libro più famoso magari senza sapere che fosse suo, come capita spesso alle opere che diventano icone a prescindere di chi le ha create, valga su tutte la ragazza afghana di Steve McCurry, riassumo brevemente la sua storia.


Nato nel 1929 a Brno, l'allora Cecoslovacchia, oggi Repubblica Ceca, fu un appassionato di letteratura e musica che lo accompagneranno per tutta la sua esistenza. Dapprima membro attivo del Partito Comunista appoggiò poi la Primavera di Praga e questo lo costrinse a fuggire nel dalla sua patria per rifugiarsi in Francia nel 1975, dove ha sempre vissuto con sua moglie Vera. I suoi libri furono vietati e gli fu tolta la cittadinanza ma ottenne quella francese nel 1981.

In onore alla patria che gli diede una seconda possibilità scrisse le sue ultime opere in francese.

Persona schiva e sfuggente è comparso poche volte in eventi pubblici o rilasciato intervist: preferiva che i suoi libri parlassero per sé.

Il successo mondiale arrivò nel 1984 con la pubblicazione de “L'Insostenibile Leggerezza dell'Essere”, da cui fu tratto anche un film diretto da  Philip Kaufman, nel 1988, con Daniel Day-Lewis e Juliette Binoche.

Di sicuro uno dei romanzi più tradotti della letteratura contemporanea.



Io lo comprai il giorno del mio compleanno nel 1992, all'epoca segnavo le date di ogni libro che acquistavo. Forse me lo feci come dono.

I miei diciott'anni.

Ne rimasi affascinato, perché quel periodo ero assetato di filosofia e letteratura e Kundera è famoso per i suoi romanzi che sono anche saggi filosofici. Poi ci sono dei libri che vanno assolutamente letti e regalati, soprattutto a quell'età. Conosco poche persone che ai vent'anni dell'epoca non avessero letto “Siddharta” di Herman Hesse o “Il giovane Holden” di Salinger. Così come a sedici anni si leggeva “Il gabbiano Jonathan Livingston” di Bach e “Il Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry, che già sembrava un libricino per bambini senza sapere che lo si saerebbe compreso veramente solo con la maturità.

Kundera era uno di quegli autori che andavano letti.



Il romanzo è ambientato principlamente a Praga alla fine degli anni Sessanta e segue le vite di due coppie di innamorati.

Il tema dominante è appunto la dicotomia tra Leggerezza e Pesantezza, appoggiata sull'idea dell'esistenza come Eterno Ritorno teaorizzata dal filosfo Nietzsche. Che ogni secondo della nostra vita si ripeta sempre uguale a se stesso è una pena terribile che rende le nostre vite pesanti in modo insostenibile.

Così si legge nelle prime pagine del libro:

“Ma davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza meravigliosa?

Il fardello più pesante ci orrpime, ci piega, ci schiaccia al suolo. Ma nella poesia d'amore di tutti i tempi la donna desidera essere gravata dal fardello del corpo dell'uomo. Il fardello più pesante è quindi allo stesso tempo l'immagine del più intenso compimento vitale. Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica.”

Per contrario, senza questo fardello le azioni e le vite stesse degli uomini diventano leggere, eteree, prive di significato.

Allora che cosa dobbiamo scegliere nelle nostre vite: la leggerezza o la pesantezza?.

Da qui parte la storia incrociata degli amori tra Tomáš e sua moglie, la giovane fotografa Tereza. Tomáš è un donnaiolo che ha incontri sessuali con centinaia di donne ma ama solo sua moglie, perché sesso e amore per lui sono due cose distinte. Sono l'emblema della leggerezza.

Poi ci sono Franz e Sabina, che rappresentano il sognatore e la pesantezza.

Tra i temi del libro c'è appunto anche quello dell'amore e del sesso inteso come “insostenibile leggerezza”.


Francois LOCHON/Gamma-Rapho via Getty Images
Milan Kundera


Credo sia sempre meglio non raccontare troppo ma lasciare il piacere solitario della lettura.

Ci sono molte pagine segnate: fin da ragazzo ho l'abitudine di sottolineare le parti che mi piacciono nei libri, ed è un bene perché la mia memoria è pessima.

Però vorrei soffermarmi qui solo su due pagine.

Rileggerle adesso mi ha dato molto da pensare; sono letture che si perdono nel tempo e come siamo ora è completamente diverso dalle persone che eravamo all'apoca.

Penultimo capitolo.

Cito qui solo alcune parti del paragrafo.

“Tutti abbiamo bisogno che qualcuno ci guardi. A seconda del tipo di sguardo sotto il quale vogliamo vivere potremmo essere suddivisi in quattro categorie.

La prima categoria desidera lo sguardo di un numero infinito di occhi anonimi: in altri termini, desidera lo sguardo di un pubblico.

[…]

La seconda categoria è composta da quelli che per vivere hanno bisogno di molti occhi a loro conosciuti. […] Essi sono più felici delle persone della prima categoria le quali, quando perdono il pubblico, hanno la sensazione che nella sala della loro vita si siano spente le luci. Succede, una volta o l'altra, quasi a tutti.

[…]

C'è poi la terza categoria, la categoria di quelli che hanno bisogno di essere davanti agli occhi della persona amata. La loro condizione è pericolosa quanto quella degli appartenenti alla prima categoria. Una volta o l'altra gli occhi della persona amata si chiuderanno e nella sala ci sarà il buio.

[…]

E c'è infine una quarta categoria, la più rara, quella di coloro che vivono sotto lo sguardo immaginario di persone assenti. Sono i sognatori.”



Questa parte è molto interessante.

Per vari motivi.

Il primo è legato allo sguardo in sé. All'importanza che gli viene conferita da Kundera.

Ho sempre creduto, e con il mestiere della fotografia questa convinzione è andata crescendo, che lo sguardo è come se fosse una forza fisica invisibile, con un proprio peso specifico. Puoi sentire se qualcuno ti sta guardando, senza saperlo. Non sempre, ma capita.

A me succede spesso.

L'occhio non è un mero ricettore ma anche una fonte di “raggi di forza”.

Già l'espressione “penetrare con lo sguardo” è indice di una dimensione materiale dello sguardo, che va al di là dell'oggetto occhio.

“Spogliare con gli occhi”, “accarezzare con lo sguardo” e via dicendo...

Fino ad arrivare alla Fenomenologia di Maurice Merleau-Ponty in cui c'è l'incarnazione dell'individuo nel mondo attraverso lo sguardo e la percezione.



Ovviamente, con la Fotografia tutto questo si sublima, l'atto dello sguardo che pesa è reso materia dal movimento dell'obiettivo che si allunga dall'occhio nella macchina fotografica.

E il peso dei nostri sguardi sono poi le immagine fotografiche che produciamo.

Come se il potere magico di Medusa che pietrificava chi osava fissare il suo sguardo sia divenuto la prassi quotidiana delle migliaia di fotografie che escono dai nostri dispositivi.

Anche la macchina fotografica pietrifica.

Il secondo motivo del fascino di questa categorizzazione di Kundera è la sua preveggenza.

Leggere questa parte dopo quarant'anni fa impressione perchè sembra essere scritta nel presente così capace di descrivere in modo tagliente la società in cui viviamo. Una società ormai dipendente dai social media, dagli smartphone e dai Live in perenne diretta che hannno ormai ridotto lo sguardo ad una voragine di egotismo. Senza più nessuno scambio reale, senza dialogo tra gli sguardi.

L'idela di perfezione incentrato sull'apparire riduce il nostro desiderio dello sguardo altrui ad una famelica bulimia, senza che ci sia più quel peso che rende la comunicazione tra gli occhi una profonda relazione romantica, emotiva ed affettiva.

Inoltre, come scrive bene Kundera, la mancanza improvvisa di quel pubblico spegne le luci dei nostri teatri esistenziali. Ci sono molte persone che ormai vivono solo in relazione alla presenza di sguardi anonimi, bramano quegli occhi, ne sono succubi.



Pochi, d'altro canto, sono i sognatori, coloro che hanno bisogno di sguardi immaginari, di persone assenti. Oggi li chiameremmo folli, un tempo erano i romantici.

Lontani dal vociare scomposto della realtà, il sognatore è chiuso nel suo mondo e i suoi occhi cercano persone amate un tempo, scomparese, oppure lontane. Il peso dello sguardo diventa allora quello della memoria, del ricordo e della nostalgia. Anche far sapere a qualcuno che lo si sta pensando è una forma di “sguardo posato” sulla vita altrui.


Non ricordavo questa parte del libro di Kundera e rileggerlo mi ha fatto molto piacere. Ha saputo vedere molto lungo sulle relazione che si instaurano tra le persone e gli sguardi, e forse oggi sono pagine molto più attuali di quando furono scritte.

L'ultima considerazione che vorrei lasciarvi è a proposito dell'amore.

Sta verso la fine del libro, nell'ultimo capitolo.

“E' un amore disinteressato: Tereza non vuole nulla da Karenin. Non vuole nemmeno l'amore. Non si è mai posta quelle domande che torturano le coppie umane: mi ama? Ha mai amato qualcuna più di me? Mi ama più di quanto lo ami io? Forse tutte queste domande rivolte all'amore, che lo misurano, lo indagano, lo esaminano, lo sottopongono a interrogatorio, riescono anche a distruggerlo sul nascere. Forse non siamo capaci di amare proprio perché desideriamo essere amati, vale a dire vogliamo qualcosa (l'amore) dall'altro invece di avvicinarci a lui senza pretese e volere solo la sua semplice presenza”.

Questa parte posso comprenderla solamente adesso.

Fin da ragazzo sono sempre stato innamorato dell'Amore. Lo interrogavo, lo desideravo. Era fuoco e corde, passione e possesso.

Poi, si dice, che con la maturità si cambia, cambia anche il nostro sguardo sulle cose della vita.

Ora credo che l'amore sia più come acqua, tanti fiumi che corrono indomabili verso il mare, diventando un'unica essenza, senza limiti ed altruista.

Tutte quelle domande che ci poniamo sempre, interrogando chi amiamo e l'amore stesso, credo siano la fonte delle nostre infelicità, delle nostre insicurezze e depressioni.

Non sappiamo realmente amare perché pretendiamo l'amore, ma questo non è una merce di scambio, una moneta.

“...vale a dire vogliamo qualcosa (l'amore) dall'altro invece di avvicinarci a lui senza pretese e volere solo la sua semplice presenza”.

Entrato nella terza parte della mia vita sento queste parole la perfetta descrizione dei miei sentimenti, e soprattutto non voglio più soffrire per qualcosa che nasce per farci stare bene, renderci felici.

L'Amore scorre indipendentemente dalla nostra volontà: è la nostra superbia umana a farci credere che possiamo governarlo e possederlo.

Ma l'acqua non rimane mai nella mano.

Dedicato a Milan Kundera (1929-2023)


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